giovedì 17 ottobre 2019

Gli Stati Uniti, l'Italia e l'antica Roma

(fonte: https://st.ilfattoquotidiano.it/wp-content/uploads/2019/10/16/trump-mattarella-1200.jpg)

Un passaggio della conferenza stampa congiunta di ieri del Presidente Trump e del Presidente Mattarella ha scatenato gli anti-trumpisti in servizio permanente effettivo. I quali non hanno esitato a divulgare sui social media la fola secondo cui Trump avrebbe detto che Stati Uniti e Italia sarebbero alleati "dati tempi dell'antica Roma". E ad usare questa fola per affermare che Trump è, nella migliore delle ipotesi, ignorante; nella peggiore delle ipotesi, invece, è rimbambito.
SUPER FAKE NEWS.
Si tratta di un piccolo episodio che dimostra la crassa ignoranza e assoluta malafede dei polemisti americani anti - Trump, e dei loro copiatori (in brutta...) italici.
Frase testuale di Trump: “The United States and Italy are bound together by a shared cultural and political heritage dating back thousands of years to Ancient Rome". (guardate coi vostri occhi e ascoltate con le vostre orecchie: https://twitter.com/i/status/1184528301194383362).
Basta una elementare conoscenza dell'inglese per capire che la polemica è in mala fede, assurda, ignorante. Trump non dice che gli Usa e l'Italia sono alleati "dai tempi dell'antica Roma". Dice una cosa ben diversa, ovvero che Usa e Italia condividono una "comune eredità culturale e politica"; è quest'ultima eredità a risalire, secondo le parole di Trump, all'antica Roma.
E quello che dice no. 45 è corretto. Il concetto di Stati Uniti come "nuova Roma" è un leit motive della politica e della cultura Usa consolidato da tempo. Trova espressione nella architettura (mai notato lo stile neoclassico di molti palazzi pubblici americani?), anche istituzionale (il Senato ricorda qualcosa?), nella cultura popolare (dalla compiaciuta autodefinizione di "Impero americano", ai numeri romani del conteggio del SuperBowl), etc.
Gli esempi potrebbero essere innumerevoli.
Il riferimento culturale all'"ancient Rome", del resto, era radicato anche nella formazione dei Padri Fondatori. Per dirne una: i famosi "Federalist Papers", pubblicati per promuovere la ratifica della Costituzione federale Usa, sono stati scritti da Alexander Hamilton, John Madison, Jon Jay sotto lo pseudonimo di "Publius". Con esplicito, volontario richiamo, appunto, alla politica della Roma Antica. Gli anti-federalist papers, contrari alla ratifica, sono stati scritti sotto lo pseduonimo di "Brutus". Piccola ma emblematica dimostrazione del fatto che i founding fathers e i loro avversari, anche se non erano d'accordo sulla Costituzione, avevano la medesima cultura politica; imbevuta di classicismo e, in particolare, di riferimento all'antica Roma.
Per cui, sgombrato il campo da questa assurda polemica, il tema che resta sul tavolo, semmai, può essere un altro: chi, tra Stati Uniti e Italia, è erede più degno dell'antica Roma?

domenica 13 ottobre 2019

Carlo Zinelli, visione continua

Consiglio: andate a vedere la mostra dedicata a Carlo Zinelli, considerato il maggiore esponente dell'Art Brut in Italia. Una trentina di opere. Impressionanti. Potenti.
Fino al 12 gennaio 2020, tutti i sabati e le domeniche dalla 11 alle 19, presso la sede della Fondazione Cariverona (Palazzo Pellegrini, via Forti, Verona).


Chi è Carlo Zinelli.
Cos'è l'art brut.
Una recensione della mostra.

mercoledì 9 ottobre 2019

Grossi guai in casa Biden

Alla fine Joe Biden non ha resistito, e oggi ha chiesto esplicitamente l'impeachment di Trump
In sostanza, l'alfiere della parte più moderata ed "istituzionale" del partito democratico soccombe alle istanze della parte più radicale e movimentista. 
Non è un caso che ciò avvenga dopo che ieri, per la prima volta, Elizabeth Warren, dopo una strepitosa rimonta, lo ha superato nella "supermedia" dei sondaggi di RealClearPolitics riguardanti le primarie del partito democratico. 


Guardate da dov'era partita, nella media dei sondaggi, la Warren. Ha "mangiato" a Biden 23 punti di media in 10 mesi.



A questo punto la domanda è: perchè l'elettore medio democratico, tendenzialmente "radicalizzato" da quasi tre anni di trumpismo, dovrebbe preferire un candidato che è espressione del vecchio establishment (mi rendo conto ora che Biden è a Washington da prima che io nascessi, cioè dal 1973 quando fu eletto per la prima volta senatore per lo Stato del Delaware) ed è oggettivamente azzoppato da accuse di conflitto d'interessi?

La Warren comincia ad essere decisamente la favorita alla nomination del partito democratico (oltre ad essere la rivale preferita da Trump).

domenica 6 ottobre 2019

La Corte Suprema dà ragione a Trump sul travel ban, mentre i Democratici perdono pezzi importanti

(Comparso su Atlantico Quotidiano del 27 giugno 2018)
Poco prima di chiudere i battenti per la pausa estiva, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato a Trump e alla sua base due buoni motivi per festeggiare.
Innanzitutto, martedì scorso, nel caso National Institute of Family and Life Advocates c. Becerra, la Corte ha dichiarato incostituzionale una legge dello Stato della California che imponeva a tutti gli enti privati di servizi medico-sanitari pre-natali (in genere, di ispirazione cristiana) di comunicare ai propri clienti che lo Stato riserva loro l’accesso al sistema pubblico di “salute riproduttiva”, contraccezione e aborto compresi. In pratica, se una donna si rivolgeva ad un consultorio per non abortire, doveva essere necessariamente informata, nel dettaglio, anche su come abortire; se il consultorio ometteva di dare queste informazioni, era soggetto a sanzioni pecuniarie. Ebbene, la Corte Suprema ha ritenuto incostituzionale questo obbligo informativo imposto dalla legge californiana. Apriti cielo. Gli attivisti pro aborto si sono scatenati, affermando che la Corte ha sostanzialmente ritenuto costituzionalmente legittimo “mentire” alle donne che si trovano a dover gestire una gravidanza indesiderata. In realtà, la Corte ha detto qualcosa di ben diverso, ovvero che il Primo Emendamento della Costituzione federale non protegge solo la libertà di parola, ma impedisce anche allo Stato di costringere i privati cittadini a propagandare un messaggio (nel caso di specie, pro aborto) contrario alle loro convinzioni. Basta pensarci un attimo, e ci si rende conto che si tratta di un elementare principio di libertà. Per Trump, molto vicino alla base pro vita – lo scorso gennaio, è stato il primo presidente in carica a partecipare all’annuale Marcia per la Vita – si tratta, dal punto di vista politico, di una vittoria indiretta ma importante.
Tutti i riflettori, però, sono puntati sull’altra sentenza con cui la Corte Suprema, sempre martedì scorso, ha ritenuto costituzionalmente legittimo il c.d. “travel ban” (o “Muslim ban” per i suoi oppositori), ovvero l’ordine esecutivo presidenziale che limita l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di Iran, Libia, Corea del Nord, Siria, Venezuela, Yemen e Somalia (i limiti per i cittadini del Ciad sono stati eliminati il 30 aprile), in quanto Stati che, secondo la Casa Bianca, gestiscono o condividono in maniera inadeguata le informazioni sui propri cittadini, o che destano preoccupazioni per la sicurezza nazionale Usa. In effetti, si tratta della terza versione di un provvedimento di Trump, che in origine, più drastico per contenuti e modalità di applicazione, includeva anche Iraq e Sudan e non riguardava Corea del Nord e Venezuela.
Tale provvedimento ha dato origine ad una battaglia giudiziaria al calor bianco, in cui non è mancato quasi nulla: dal licenziamento dell’Attorney General (l’equivalente del ministro della giustizia) pro tempore, Sally Yates, per insubordinazione perché aveva dichiarato la sua opposizione al provvedimento; ai ripetuti stop all’ordine esecutivo pronunciati da giudici federali di grado inferiore. Il caso è arrivato fino alla Corte Suprema, che si è così trovata a dover decidere su due importanti questioni giuridiche. La prima riguardava i poteri del presidente in base all’Immigration and Nationality Act del 1952. La seconda verteva sulla tesi secondo cui il provvedimento era viziato da pregiudizio anti-islamico. Ebbene, secondo la Corte Suprema, Trump ha agito all’interno dei limiti posti dalla legge, che, del resto, per come è scritta (e non l’ha scritta Trump, ma il Congresso più di sessant’anni fa), “trasuda” (exudes), in ogni sua disposizione, deferenza rispetto ai poteri del presidente. La Corte ha sottolineato che gli Stati in questione erano già stati individuati come minacce alla sicurezza nazionale – ben prima di Trump – dal Congresso o anche da precedenti amministrazioni. E ha sottolineato che la tesi secondo cui il presidente non avrebbe il potere di limitare gli ingressi sulla base della nazionalità è semplicemente insostenibile, perché condurrebbe all’assurdo di non consentire l’imposizione di limiti agli ingressi di cittadini di Stati colpiti – per esempio – da epidemie, o addirittura in guerra con gli Stati Uniti. Cosa evidentemente non possibile.
La decisione della Corte, presa a stretta maggioranza (5-4), ha mandato il Partito Democratico su tutte le furie, e rappresenta un’indubbia vittoria per Trump. Giuridica e mediatica. Sul piano giuridico, perché si tratta di una riaffermazione delle prerogative presidenziali in materia di immigrazione e sicurezza nazionale. Sul piano mediatico, perché etichettando il provvedimento in questione come “Muslim ban”, i suoi oppositori più estremisti sono caduti nella trappola propagandistica del presidente; e continuano a cadervi quando ora accusano la Corte di aver rispolverato le pagine più oscure della propria storia – che in effetti non mancano – come le sentenze che ritennero legittime la schiavitù (Dred Scott, 1857), o i campi di concentramento per i residenti o cittadini americani di origine giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale (Korematsu, 1944). In effetti, si tratta di critiche tanto rumorose quanto sterili ed immotivate. Il perché è presto detto. Innanzitutto, i numeri parlano chiaro: molti Stati a predominanza musulmana non sono stati toccati dal provvedimento, e Corea del Nord e Venezuela non possono essere certamente ritenuti bersaglio di pregiudizio anti-islamico. Per altro verso, dal punto di vista politico, si tratta di una battaglia inutile: la base di Trump – che è quella che lo ha portato alla Casa Bianca, che è la principale destinataria di tutta la sua agenda, e che ha un ruolo decisivo dal punto di vista elettorale fintantoché il Partito Repubblicano resta così spaccato – non lo abbandonerà mai per aver adottato provvedimenti, per quanto rozzi o eccessivi, il cui scopo sia la tutela della sicurezza nazionale.
I Democratici che non vogliono attaccare direttamente la Corte, invece, utilizzano un argomento solo apparentemente più raffinato, ed affermano che quello di oggi è il risultato dell’ostruzionismo repubblicano durante l’ultimo scorcio della presidenza Obama, che, dopo l’improvvisa morte del giudice Scalia, impedì la conferma di un giudice di orientamento democratico, Merrick Garland, e lasciò “in dote” a Trump la possibilità di reintegrare il plenum della Corte Suprema con un conservatore a tutto tondo, Neil Gorsuch. Ma si tratta di un argomento su cui i Democratici di oggi sono poco credibili, visto che, a propria volta, si stanno superando nell’arte dell’ostruzionismo per rallentare il più possibile le nomine, giudiziarie e non, di Trump.
Le reazioni dei Democratici, nelle loro varie gradazioni, tradiscono in realtà una disperazione ai limiti dell’isteria. Nel caso più politicamente delicato dell’anno, la maggioranza conservatrice della Corte Suprema ha retto. Anche il giudice conservatore più moderato, Anthony Kennedy, ha votato a favore del provvedimento di Trump, anche se ha preferito presentare un’opinione separata, ma concorrente nel voto, in cui ha tirato le orecchie al presidente per i toni e i modi delle sue esternazioni. Il punto è che dopo l’estate, oltre a Kennedy, altri due giudici della Corte Suprema avranno più di 80 anni. Un quarto, Clarence Thomas, ha compiuto 70 anni la settimana scorsa. Come abbiamo già segnalato su queste colonne, se anche uno solo si ritirasse a breve, Trump avrebbe la possibilità di sostituirlo con un giudice relativamente giovane e, soprattutto, conservatore doc, determinando così a favore dei Repubblicani gli equilibri della Corte Suprema forse per decenni.
È evidente, dunque, che, in un sistema in cui le nomine presidenziali sono soggette alla conferma del Senato, le elezioni di novembre, quando sarà rinnovato un terzo del Congresso, diventano sempre più cruciali. I Democratici sperano di riacciuffare la maggioranza, confidando nella statistica secondo cui il partito del presidente, di solito, registra un risultato negativo in tale passaggio elettorale intermedio. Ma le elezioni primarie che si sono svolte sempre martedì non consentono ai Democratici di essere ottimisti. Mentre i candidati appoggiati da Trump hanno vinto, un pezzo grosso dell’establishment del Partito Democratico, il rappresentante del 14mo distretto di New York, Joe Crowley, che, se tutte le congiunzioni astrali si fossero avverate, era in corsa per diventare, dopo novembre, Speaker (l’equivalente del presidente) della Camera dei Rappresentanti, è stato sconfitto in maniera tanto scioccante quanto imprevista da una giovane attivista di ultrasinistra, e già nuova eroina dei radical chic, Alexandria Ocasio-Ortez. Per cui, mentre Trump vince alla Corte Suprema e non solo, il Partito Democratico perde per strada i pezzi da novanta.
Ad un livello più generale, la vicenda del c.d. “travel ban” dimostra che le istituzioni Usa, con il loro raffinato e forse irripetibile sistema di pesi e contrappesi, funzionano. E resistono anche agli scossoni causati da un personaggio scomodo come Trump. I limiti posti dalla legislazione e la struttura della giurisdizione federale hanno costretto Trump a cambiare il suo controverso provvedimento ben due volte, fino a riscriverlo in modo da renderlo conforme a principi sostanzialmente consolidati nella giurisprudenza della Corte Suprema. Su questo argomento, dunque, il sistema ha gestito e moderato le istanze più estremiste del trumpismo, dimostrando tutta la sua solidità. La democrazia americana non è in pericolo, come qualcuno vorrebbe sostenere. O se lo è, non è per colpa di Trump, ma di un Partito Democratico che, dopo la traumatica sconfitta alle presidenziali del 2016, deve ancora trovare il bandolo della matassa e non riesce ad esercitare quel ruolo di opposizione matura che è essenziale in una democrazia evoluta.

Nozze gay: la Corte Suprema Usa infiamma la corsa verso le elezioni di medio termine

(Comparso su Atlantico Quotidiano del 6 giugno 2018)
La Corte Suprema degli Stati Uniti si è pronunciata lunedì su uno dei casi più attesi dell’anno, esprimendosi a favore di un pasticcere del Colorado che, nel 2012, si era rifiutato, per motivi religiosi, di realizzare la torta nuziale per una coppia gay. Nell’opinione di maggioranza, redatta dal giudice Kennedy, la Corte ha ricordato che, secondo la Costituzione federale, le obiezioni religiose e filosofiche al matrimonio gay sono opinioni protette e, in alcuni casi, forme protette di espressione.
Apriti cielo. Gli ultrà conservatori hanno accolto la sentenza come un concreto dietrofront della Corte in materia di diritti delle coppie dello stesso sesso (cosa che non è). Gli attivisti del movimento LGBT, per contro, hanno accusato i giudici “supremi” di aver fatto un inaccettabile passo indietro nel cammino verso la piena tutela dei diritti civili (e non si tratta nemmeno di questo).
L’attenzione del mondo politico per questa sentenza è inevitabile, non solo per l’argomento specifico, che riguarda il delicato equilibrio tra libertà religiosa e diritti delle coppie dello stesso sesso, ma anche perché i precedenti della Corte Suprema, nel sistema Usa, hanno natura vincolante, in virtù della regola del c.d. stare decisis. Tuttavia, una lettura serena e immune da pregiudizi ideologici impone di riconoscere che, in questo caso, si tratta di un precedente dal “fiato corto”. Certo, dal punto di vista numerico la maggioranza che si è pronunciata a favore del pasticcere è piuttosto ampia (7-2), e ciò grazie anche al fatto che due dei giudici di orientamento democratico, Breyer e Kagan, hanno votato come i loro colleghi conservatori. Ma si tratta di un precedente strettamente legato alle peculiarità del caso concreto – ed in particolare alla “chiara ed inammissibile ostilità” dimostrata dalla Commissione dei Diritti Civili del Colorado, che aveva sanzionato il pasticcere senza riconoscere adeguata tutela alla sua libertà religiosa. La Corte ha evitato di tracciare un precedente di carattere generale in materia di bilanciamento tra libertà di espressione – religiosamente caratterizzata – e diritto al matrimonio gay, lasciando tale compito al Congresso (o, all’occorrenza, a un proprio futuro intervento). Pertanto, rimane intatta la sentenza cardine in materia, pronunciata nel caso Obergefell c. Hodges, con cui la Corte, nel 2015, ha affermato che la Costituzione federale riconosce alle coppie dello stesso sesso il diritto al matrimonio.
Le reazioni accese che hanno seguito la sentenza di lunedì sembrano però ignorare volutamente il valore circoscritto della sentenza, approfittando del suo tecnicismo. Come mai? Per un duplice motivo. In primo luogo, questa è l’America ai tempi di Trump: un enorme stadio, in cui le opposte tifoserie si schierano e si dividono in maniera pregiudiziale, seguendo riflessi quasi pavloviani. Diviene così molto difficile il compito di chi vuole distinguere, nel fuoco incrociato delle opposte propagande, il reale significato degli accadimenti.
In secondo luogo, al di là delle contrapposizioni ideologiche in materia di diritti gay, questa sentenza della Corte Suprema riacutizza un problema politico-istituzionale che sta diventando sempre più pressante. Da mesi si inseguono le indiscrezioni su un possibile ritiro proprio del giudice Kennedy, che ha redatto non solo questa sentenza “circoscritta”, ma anche quella “cardine” nel caso Obergefell. Kennedy, 81 anni, nominato da Reagan, è un conservatore centrista, e il suo voto è il puntello decisivo per la maggioranza conservatrice della Corte Suprema. Ma Kennedy, tra gli attuali membri della Corte, dal punto di vista anagrafico non è neppure il giudice più anziano. Difatti, ha da poco sorpassato le 85 primavere Ruth Bader Ginsburg, icona liberal e femminista, divenuta una celebrità sui social media durante la campagna presidenziale del 2016, quando, rompendo la tradizionale riservatezza dei giudici “supremi” sui temi politici contingenti, non ha esitato ad esprimere la propria avversione per Trump (salvo poi scusarsi).
La battaglia ideologica sui diritti dei gay si sovrappone quindi alla lotta per il controllo dell’orientamento della Corte Suprema, e non solo. I giudici della Corte Suprema, così come tutti i giudici federali, sono nominati dal presidente, ma le loro nomine devono essere confermate dal Senato. E si tratta di nomine a vita.
Trump, in campagna elettorale, ha promesso di nominare – alla Corte Suprema, qualora si fosse presentata l’occasione, ma anche ai livelli inferiori della giurisdizione federale – giuristi dall’impeccabile preparazione tecnica, e dall’altrettanto granitico orientamento conservatore. Promessa mantenuta con la scelta del poco più che cinquantenne Neil Gorsuch – perfettamente corrispondente a questo profilo – per riempire il posto vacante lasciato, per più di un anno, dalla morte del giudice Scalia.
Se Kennedy dovesse ritirarsi a breve, Trump avrebbe la possibilità di sostituirlo con un altro giudice conservatore e relativamente giovane. Si materializzerebbe così uno dei peggiori incubi per i Democratici: una maggioranza conservatrice alla Corte Suprema destinata a durare a lungo, forse decenni. E proprio per esorcizzare questo incubo, il giudice Ginsburg ha finora fatto di tutto, dal canto suo, per smentire le voci che pure la davano per prossima al ritiro, vista l’età. Ma non c’è solo la Corte Suprema. L’ostruzionismo esercitato dai Repubblicani durante la presidenza Obama ha lasciato in eredità a Trump molti posti vacanti ai vari livelli della giurisdizione federale. Sono quindi ora i Democratici ad utilizzare tutti gli stratagemmi possibili – anche a danno della funzionalità del sistema – per rallentare il processo di conferma delle nomine pendenti (secondo l’ultimo conteggio, sono circa 148). Non riuscendo a “toccare palla” dal punto di vista politico, tramortiti prima dalla vittoria imprevista di Trump ed ora dall’attivismo della sua amministrazione, e privi di una chiara leadership, ai Democratici non resta che affidarsi, a propria volta, all’ostruzionismo, e alla speranza che le elezioni di medio termine del prossimo 6 novembre modifichino l’attuale maggioranza repubblicana al Congresso, Senato compreso.
Il tema del matrimonio gay è quindi il classico casus belli, ma la guerra vera riguarda le nomine dei giudici federali – dalla Corte Suprema in giù – destinate ad incidere a lungo sull’equilibrio complessivo del sistema politico-istituzionale. La sentenza sul pasticcere del Colorado ha un significato circoscritto, ma è perfetta per essere sventolata come bandiera ideologica da entrambe le parti, quasi come uno specchietto per le allodole: serve a chiamare a raccolta le opposte tifoserie, e a motivarle in vista della prossima battaglia decisiva, fissata alle urne tra cinque mesi.

“Deep State” e Russia: lo “Stato permanente” conta anche in Italia e Berlusconi lo ha capito

(Comparso su Atlantico Quotidiano del 19 aprile 2018)
La presidenza Trump ha portato alla ribalta due temi, che sono troppo spesso affrontati in maniera così dozzinale e sensazionalistica da renderli, in realtà, irrilevanti, ma che, se analizzati seriamente, non possono essere ignorati, a Washington così come da noi.
Il primo tema è quello del cosiddetto “Deep State”, o “Stato profondo”. Secondo gli appassionati di complotti (soprattutto quelli che hanno simpatie di destra), il “Deep State” è costituito da un gruppo di persone inserite nei gangli strategici dell’alta burocrazia, dell’intelligence, delle forze armate, i quali perseguono un ben preciso indirizzo politico, soprattutto in tema di sicurezza nazionale, indipendente dalle contingenze determinate dai risultati elettorali. Secondo i sostenitori delle più ardite teorie cospirative, per perseguire i propri scopi, i membri del “Deep State” non si farebbero scrupolo di utilizzare metodi illegali e anche estremi, quali il ricorso, all’occorrenza, a scandali pilotati, all’assassinio politico, a tentativi di colpi di stato. Chiaramente, la tematica, così affrontata, è degna di trovare spazio solo sui tabloid scandalistici, o al massimo, in serie televisive thriller come quella, omonima, approdata in queste settimane anche in Italia. Si tratta, però, del deterioramento ad uso scandalistico di un tema importante, negli Stati Uniti e non solo.
È quasi banale, infatti, affermare che in un sistema istituzionale articolato e complesso come quello statunitense, esiste in effetti un apparato che può essere identificato quale “Stato permanente”. Esso è certamente costituito dagli esponenti di quell’alta burocrazia federale, i cui incarichi non sono legati allo spoil system; ciò consente a questi alti burocrati di perseguire un proprio indirizzo politico, per così dire, appunto, “stabile”, che, tende, di per sé, quasi inevitabilmente, a diventare difficilmente permeabile, e refrattario al controllo dei vertici di nomina politica. È per questo motivo che il termine “Deep State” è dibattuto, “seriamente”, anche nell’ambito della scienza politica, per individuare quegli influenti centri decisionali nell’ambito della pubblica amministrazione che sono relativamente permanenti, e le cui linee politiche ed i cui programmi di lungo periodo, soprattutto in materia di sicurezza nazionale, sono difficilmente influenzabili dal succedersi dei vari governi democraticamente eletti. Un problema presente in tutte le democrazie.
Il secondo tema è quello della cosiddetta “Russia Collusion”. I rapporti tra Stati Uniti e Russia sono così tesi – o, almeno, parte della schieramento politico vuole che siano così tesi – che per un funzionario statunitense anche solo avere contatti, nell’esercizio delle proprie funzioni, con l’ambasciatore russo può essere motivo sufficiente per essere pubblicamente additato come traditore (come dimostra la vicenda di Michael Flynn, costretto a dimettersi pochi giorni dopo essere entrato in carica come consigliere della sicurezza nazionale di Trump). I Democratici si sono aggrappati al tema dell’influenza di Putin sulla corsa alla Casa Bianca, e, di conseguenza, alle indagini del procuratore speciale Mueller – che dopo mesi non è ancora riuscito a cavare un ragno dal buco – per due principali motivi: in primo luogo, perché non sono ancora riusciti a metabolizzare l’inaspettata sconfitta alle presidenziali del 2016, e non hanno ancora escogitato nulla di meglio; in secondo luogo, perché sanno che è un tema che può mettere in difficoltà Trump anche nei rapporti con quello che, in teoria (molto in teoria), è il suo partito, ovvero il Partito Repubblicano, o almeno con quella parte del Partito Repubblicano che ha una linea molto rigida nei confronti della Russia.
Quello della “Russia collusion” è quindi un altro argomento spesso strumentalizzato ed utilizzato in modo propagandistico, come arma utile solo per danneggiare l’immagine dell’avversario politico. Ciò non vuol dire, però, che il tema dei tentativi della Russia di influenzare la politica americana debba essere trascurato. I resoconti di stampa ed i rapporti di intelligence sull’utilizzo di attacchi hacker, fake news e altri strumenti di propaganda legati – direttamente o indirettamente – a Mosca sono troppi per essere ignorati. Semmai restano dubbi sul fatto che abbiano avuto reale efficacia nell’influenzare le decisioni dell’elettorato americano. Anche se è più plausibile che la Russia avesse, come obiettivo, non tanto quello di favorire uno specifico candidato (Trump piuttosto che Clinton), quanto quello di creare confusione e divisione, mettendo in difficoltà gli Stati Uniti sul piano interno. Ed il livello di tensione tra il presidente in carica e i suoi oppositori induce a pensare che questo obiettivo la Russia l’abbia raggiunto, eccome.
Dopo aver cercato, quindi, di dare un contenuto “serio” al tema del “Deep State” e della “Russia Collusion”, possiamo chiederci se si tratta di categorie interpretative utili anche per analizzare i fatti di casa nostra. La risposta è sicuramente affermativa, come dimostra l’evoluzione repentina assunta, negli ultimi giorni, dalle consultazioni per la formazione del nuovo governo.
Se volessimo tentare di dare un contenuto – serio – all’indirizzo politico del “Deep State” italiano, senza fare eccessivo uso di fantasia possiamo elencare tre sigle che individuano le tre “stelle polari” della politica estera e di sicurezza italiana: NATO, ONU, UE. Ormai sappiamo che durante la Guerra Fredda, la tutela di queste coordinate di azione – soprattutto la prima – poggiava anche su apparati clandestini, che avrebbero dovuto attivarsi qualora la minaccia sovietica si fosse resa attuale. Durante la cosiddetta Seconda Repubblica, il carattere cogente di queste linee di azione (che sono parte integrante di quello che possiamo definire come “indirizzo politico costituzionale”, il cui supremo guardiano alloggia al Quirinale) è emerso durante le varie crisi politiche che si sono succedute durante il lungo “regno” dell’undicesimo presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E gli avvenimenti di queste ore dimostrano che, sotto questo profilo, il presidente Mattarella, giustamente, non intende discostarsi di un millimetro dall’operato del suo predecessore.
Per quanto riguarda il tema della “Russia Collusion”, invece, occorre rilevare che, in Italia, il livello di sensibilità è sicuramente inferiore rispetto agli Stati Uniti. Del resto, qui da noi, sul tema dei finanziamenti stranieri alla politica nessuno può vantare un’autentica verginità. Tutti ricorderanno le clamorose esternazioni di Cossiga sui rubli che da Mosca finivano nelle casse del PCI, e sui dollari con cui la CIA finanziava la DC. Forse a causa di questa totale mancanza di innocenza della Repubblica italiana, le notizie di stampa sui legami con la Russia di Putin della Lega, capitanata da Salvini, alla disperata caccia di finanziamenti, non hanno generato particolare scandalo. Negli Stati Uniti, un politico che si facesse fotografare con una maglietta raffigurante l’effigie di Putin sulla Piazza Rossa non potrebbe concretamente aspirare alla Casa Bianca. In Italia invece, è stato fino all’altro giorno regolarmente in corsa per diventare premier.
Ma a tutto c’è un limite. La linea scompostamente filoputiniana e filoassadiana espressa da Salvini nelle ore che hanno seguito l’attacco di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna al programma di armi chimiche di Assad ha fatto retrocedere la Lega di molte posizioni nella corsa per la formazione del nuovo governo. Delle due l’una: o si è trattato di una vera e propria topica in un momento delicato, oppure Salvini aveva già capito che Mattarella aveva già optato per un incarico istituzionale, e ha deciso di curare gli umori della propria base. Solo un po’ più sfumata – contraria all’attacco ma filo-Nato – è stata la posizione espressa da Fratelli d’Italia, partito che anche in questo frangente si è accontentato
di un ruolo solo ancillare.
Non è una sorpresa, quindi, che il presidente Mattarella abbia deciso di affidare un incarico esplorativo a Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, ma anche e soprattutto esponente di Forza Italia fedelissima e di lungo corso. Berlusconi, nel week end di guerra-lampo appena trascorso, si è palesato, rispetto a Salvini, quale interprete più affidabile di quelle che sono le coordinate di azione dello “Stato permanente” italiano. D’altronde, l’opera dello “Stato permanente” Berlusconi l’ha provata sulla propria pelle, nel novembre 2011; e dimostra di aver imparato la lezione.

Il Museo Egizio ha un direttore bravo a fare pubblicità… soprattutto a se stesso

(Comparso su Atlantico Quotidiano del 14 febbraio 2018)
Christian Greco, il direttore del Museo Egizio di Torino, è uno dei nuovi eroi della sinistra italiana e degli ultras del multiculturalismo. Aitante egittologo, prodotto della “generazione Erasmus”, una biografia che non manca di passaggi da libro “Cuore” (secondo un ritratto del Corriere della Sera, mentre studiava in Olanda “ha fatto le pulizie nei bagni pubblici della stazione, ha lavorato come guardiano di notte all’hotel Ibis”), dopo essere stato un “cervello in fuga” è stato scelto, con un concorso internazionale, per dirigere quello che, nel suo genere, è considerato il più importante museo del mondo dopo quello del Cairo. Il grande pubblico italiano, però, ignorava l’esistenza di Christian Greco (e in troppi, a dire il vero, non si erano neppure accorti che il Museo Egizio avesse riaperto il primo aprile 2015, dopo tre anni e mezzo di ristrutturazione), finché Giorgia Meloni non ha deciso di protestare in maniera eclatante contro un’iniziativa promozionale (peraltro già realizzata l’anno scorso e passata, non a caso, in sordina) rivolta ai “Nuovi Italiani”, ovvero ai “cittadini di lingua araba”, che dal 6 dicembre 2017 al 31 marzo 2018 “potranno entrare in due al costo di un biglietto intero”. Per la leader di Fratelli d’Italia, si tratterebbe di una discriminazione bella e buona ai danni dei “vecchi” italiani, o quantomeno di quegli italiani che non sono di lingua araba e che quindi non possono usufruire dell’offerta “due al prezzo di uno”.
Il video in cui Giorgia Meloni e Christian Greco si confrontano davanti al Museo Egizio è uno dei passaggi più interessanti di questa deprimente campagna elettorale. Merita un’occhiata, perché mette a confronto due “giovani leader” (seppure in ambiti diversi). Secondo i sostenitori di Greco, nel confronto avrebbe stravinto lui. A dire il vero, dopo essere riuscito a piazzare l’affermazione secondo cui il Museo Egizio non riceverebbe finanziamenti pubblici, quando è stato incalzato proprio su alcuni dettagli di bilancio, Greco si è ritirato dalla discussione, trincerandosi dietro un bellissimo e molto torinese (anche se è nato ad Arzignano) sorriso di cortesia. Il tutto, poi, è stato opportunamente travolto dal bailamme causato dalla presunta “promessa/minaccia” di Fratelli d’Italia di cacciare Greco dopo le elezioni, cosa peraltro impossibile visto che il Museo è retto da una fondazione privata.
Insomma, un piccolo grande caso politico in cui la sinistra italiana ha trovato, come si diceva, un nuovo eroe, già pronto a rivestire, all’occorrenza, il ruolo di vittima di un fantomatico “editto di Torino”.
In tutto questo, duole che Giorgia Meloni abbia confermato la tendenza ad usare argomenti utili, soprattutto, a galvanizzare la propria base (ovvero a consolidare i voti che ha già) e non abbia fatto ricorso, invece, ad un argomento molto semplice, che le avrebbe consentito di smarcarsi dal confronto ideologico più scontato. Sarebbe stato interessante, ad esempio, sottolineare che al direttore del Museo Egizio di Torino piace – come si suole dire – “vincere facile”, visto che cerca di aumentare il numero dei visitatori regalando i biglietti. Sarebbe stato agevole, a quel punto, anche infilarci una battuta – ovvero che per fare questo non occorre essere un “egittologo”. Persino io sono convinto di riuscire, senza troppi sforzi, a portare i miei amici di Torino a vedere il Museo Egizio, se regalo loro il biglietto.
Battendo su questo tasto, si sarebbe giunti alla domanda centrale: al di là dell’affascinante biografia, Christian Greco è davvero bravo, come direttore del Museo Egizio di Torino? Una veloce lettura dei bilanci pubblicati sul sito del Museo consente di verificare che la principale voce di ricavo è costituita proprio dalla vendita dei biglietti d’ingresso. E che una delle prime decisioni post insediamento del neo direttore – presa evidentemente per far quadrare i conti dopo la riapertura – è stata quella di raddoppiare o quasi il prezzo del biglietto. Anche qui, potremmo aggiungere, non ci voleva un egittologo… Mentre gli ultimi due bilanci previsionali disponibili sul sito del Museo (relativi agli anni 2016 e 2017) prendono in considerazione un numero sempre stabile di visitatori. Non si prevede, quindi, una tendenza di crescita. Certo, meglio essere prudenti. Ma insomma: siamo sicuri che regalare i biglietti sia un’efficace iniziativa promozionale? Grazie alla polemica favorita dalla concomitanza con la campagna elettorale, si è trattato di una strategia sicuramente vincente per la visibilità personale di Greco. Che poi ciò possa tradursi anche in visibilità del Museo presso il pubblico pagante – primo finanziatore dell’attività corrente del Museo stesso – beh, questo resta tutto da dimostrare.

sabato 5 ottobre 2019

Trump al Congresso: l’Unione è forte, la “palude” politica divisa

(Comparso su Atlantico Quotidiano del 31 gennaio 2018)
Ieri a Washington si è celebrato uno dei principali riti collettivi della politica americana: il Presidente Trump ha pronunciato, davanti al Congresso riunito in seduta comune, il suo primo Discorso sullo Stato dell’Unione.
Si è trattato, come sempre, di un evento in cui la coreografia, la retorica e il body language hanno fatto la parte del leone, offrendo così, agli spettatori, la summa dell’immagine che, nella fase attuale, la politica Usa intende proiettare di sé.
Trump è stato accolto in maniera estremamente calorosa dalla parte repubblicana dell’aula, che ha fatto di tutto per eclissare l’accoglienza glaciale riservatagli dagli esponenti del Partito Democratico.
In meno di un minuto il Presidente ha strappato la sua prima standing ovation; ne ha ricevute molte, in effetti, durante il discorso durato più di un’ora. Si è trattato di acclamazioni bipartisan, quando ha elogiato le gesta di militari e operatori dei servizi di emergenza, invitati quali ospiti d’onore e indicati come esempi di eroismo ed abnegazione. O quando si è trattato di salutare Steve Scalise, membro della Camera dei Rappresentanti – molto vicino politicamente a Trump – miracolosamente sopravvissuto, l’anno scorso, ad un attentato di matrice politica.
Gli applausi, invece, sono stati quasi sempre della sola parte repubblicana quando Trump ha rivendicato i risultati della propria Amministrazione, citando i dati sull’occupazione, l’andamento dell’economia, il taglio delle tasse, gli interventi correttivi sulla riforma sanitaria di Obama. È stato così anche nella parte centrale del discorso, dedicata ai temi di politica interna, che ha preso le mosse da temi generali – quali il richiamo all’afflato religioso che ispira la democrazia americana, l’elogio delle Forze Armate e della bandiera, le nomine di “bravi” giudici federali. Qui Trump non è andato a caccia di consensi tra i Democratici, anzi, ha proseguito di gran carriera toccando temi a loro invisi, quali la difesa del Secondo emendamento, la tutela della libertà religiosa, la drastica diminuzione della regolazione pubblica; solo poi si è dedicato ad argomenti su cui è possibile trovare qualche punto di incontro bipartisan, quali la reindustrializzazione degli Usa, la riduzione dei costi dei farmaci da prescrizione, la rinegoziazione dei trattati commerciali, il gigantesco piano delle infrastrutture, ma anche la formazione professionale, i congedi parentali, la reintroduzione degli ex carcerati nel mondo del lavoro. Ma non ci si deve sbagliare, Trump non è interessato a “inciuci” con l’opposizione: la parte del discorso dedicata ai temi interni si è chiusa, infatti, con ampio spazio per i “cavalli di battaglia” della piattaforma trumpista in materia di immigrazione, come la costruzione del muro al confine con il Messico (indissolubilmente legato al piano per risolvere il problema dei “Dreamers”), e nel campo della lotta al traffico di droga.
L’ultima parte, infine, è stata dedicata alla politica estera, e qui Trump ha confermato la linea intrapresa volta allo smantellamento della balbettante politica estera obamiana, partendo dal rafforzamento e ammodernamento della capacità militare Usa, in linea con il motto reaganiano “peace through strength”; per poi passare alla rivendicazione dei risultati ottenuti, in poco più di un anno, nella guerra contro l’ISIS; alla riapertura senza riserve di Guantanamo quale carcere per i terroristi; alla riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele; al rafforzamento del principio di condizionalità nell’erogazione di contributi economici agli Stati esteri e alle organizzazioni internazionali, che non possono andare a beneficio dei nemici degli Usa; alla conferma della drastica inversione di rotta nella politica nei confronti di Cuba, Iran e Corea del Nord.
In tutto questo, si sono susseguiti vari momenti d’impatto mediatico, accuratamente studiati: l’omaggio ai genitori di due ragazze uccise dai membri di una banda criminale composta prevalentemente da immigrati; ai genitori di Otto Warmbier, studente americano morto pochi giorni dopo essere stato liberato da un’assurda e feroce prigionia in Nord Corea; ad un esule nordcoreano che ha sollevato la sua vecchia gruccia (ora cammina grazie a protesi artificiali made in Usa) come emblema della sua lotta per la libertà. Infine, il coro “Usa-Usa”, quando Trump ha celebrato il Campidoglio di Washington come monumento al principio di autogoverno su cui si fondano le istituzioni americane, sottolineando che esse sono al servizio del popolo americano, e non il contrario (sì, chiamatelo, se volete, populismo).
In tutto ciò, i Democratici hanno cercato, come detto, di proiettare un’immagine di ferma distanza e contrapposizione, limitandosi a “fare presenza” e ad unirsi al Presidente solo negli omaggi a militari e first responders. Alcuni intellettuali “indipendenti”, dal canto loro, nei primi commenti, hanno sottolineato che si è trattato di un discorso “divisivo”. Analisi che lascia il tempo che trova, perché il problema è che, nella politica americana, ad essere “divisivi” sono soprattutto i temi.
Ma il pubblico americano cosa ne pensa? Per quello che valgono, i primi sondaggi fatti dai più grandi network televisivi (CBS e CNN) hanno riferito di un’approvazione a larghissima maggioranza del discorso da parte dell’elettorato repubblicano, e di un grande apprezzamento anche da parte degli elettori indipendenti. E – sorpresa sorpresa… – anche quasi la metà degli elettori registrati come democratici ha espresso giudizio positivo. Se si tratta di rilevazioni accurate, Trump, con il discorso di ieri sera, ha segnato un importante punto a proprio favore.
È indicativo, del resto, che i Democratici abbiano affidato la “replica” a Joseph “Joe” Kennedy III – pronipote di JFK – che, se non fosse per l’augusto cognome, sarebbe da considerare a tutti gli effetti un “peso piuma” del partito. Il problema è che, quando il “Russia gate” passa in secondo piano nell’agenda mediatica, emerge la scomoda, tragica verità: il Partito Democratico è ancora in stato di shock per la sconfitta alle presidenziali del 2016, e dalle macerie lasciate dal binomio Obama-Clinton deve ancora emergere un barlume di leadership vincente. È per questo che, in mancanza, viene dato spazio alle posizioni più estremiste (come quelle che hanno portato all’autolesionistico – per i Democratici – shutdown del governo federale, durato lo spazio di un weekend), o a idee velleitarie che esistono solo nell’immaginario di Hollywood e del jet set newyorkese (come “Oprah for President”), o, come detto, ai “pesi piuma”, nella convinzione che questi ultimi, in realtà, più di tanto non possano fare, se non vivere di luce riflessa.
Insomma, se l’Unione federale è forte, come ha detto (a ragione) Trump durante il suo discorso, il solco che divide la “palude” politica di Washington è profondo, ed è proprio il Presidente a scavarlo con convinzione. Vedremo come ciò si tradurrà nella corsa, già iniziata, verso le elezioni di medio termine di novembre. Mentre i Democratici in cerca di idee hanno la tendenza ad arroccarsi nell’estremismo, Trump procede come uno schiacciasassi, dimostrandosi capace di catalizzare il partito repubblicano, e di conquistare, all’occorrenza, anche molti indipendenti.

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