martedì 31 ottobre 2017

Le accuse a Manafort non c’entrano nulla con Trump, ma servono comunque allo scopo

L’indagine sul “Russia-gate” sembra arrivata ad una svolta, con le accuse all’ex capo della campagna di Trump, che ha ottenuto i domiciliari a fronte di una cauzione di 10 milioni di dollari.

Ma dove conduce questa svolta? Dritto alla Casa Bianca, come sognano gli odiatori di Trump? 

Per il momento, è più che legittimo dubitarlo.

Innanzitutto, occorre tenere ben presenti alcuni punti fermi.

1. Il procuratore speciale Robert Mueller ha il mandato di indagare sui tentativi di Putin di influenzare le elezioni presidenziali Usa del 2016.

2. Le accuse mosse da Mueller a Manafort, ex capo della campagna presidenziale di Trump, non riguardano le elezioni presidenziali 2016, ma incarichi svolti da Manafort nel 2012 come lobbista dell’ex Presidente dell’Ucraina, Viktor Janukovic. Manafort avrebbe violato la normativa sui lobbisti e in materia fiscale. In sostanza, Manafort avrebbe incaricato due super lobbisti di Washington di influenzare le istituzioni Usa per conto di Janukovic, nascondendo però il suo ruolo e la provenienza dei soldi.

3. Le accuse a Manafort non riguardano minimamente Trump.

4. Le accuse di Mueller toccano anche Tony Podesta, super lobbista democratico, fratello di John Podesta, capo della campagna presidenziale di Hillary Clinton. Il Podesta Group è una delle due società di lobbying che hanno accettato e svolto l’incarico affidato da Manafort.

Quindi cosa c’entra tutto questo con Trump? Niente. O, a tutto voler concedere, c’entra con Trump almeno tanto quanto c’entra con Hillary Clinton.

La cosa, di per sè, non è strana, anzi è un tratto tipico del ruolo delle lobby e dei lobbisti nella politica di Washington. Alla fine, tutti conoscono tutti e tutti fanno affari con tutti. Con un unico vincolo: bisogna rispettare le leggi che cercano di garantire un po’ di trasparenza e, con essa, un livello decente di controllo democratico da parte del cittadino elettore. Proprio quelle leggi che Manafort e il suo amico democratico Podesta avrebbero, nel caso di specie, violato.

Però, tutto questo è piuttosto complicato spiegarlo. Per cui, nell’era della grande semplificazione e delle notizie in tempo reale 24 ore su 24, con la pressante esigenza di fare audience che induce, in mancanza di notizie, a inventarsele, è più facile diffondere l’aspettativa che le accuse a Manafort portino dritte a Trump.

Ma non è così. Per ora, dopo MESI di indagini del procuratore speciale, non c’è ancora uno straccio di prova di collusione tra Trump e la Russia, che rimane una mera congettura. 

In effetti, dopo mesi, le indagini del procuratore speciale continuano ad avere una valenza più politica che giuridica. Di tangibile, c’è solo l’effetto ottico che danneggia l’immagine della presidenza Trump, e la condiziona nei rapporti con la Russia. E questo è il vero motivo per cui le indagini continuano, anche se non portano a nulla.

Questo perché  la sola esistenza delle indagini - a prescindere dal risultato - va bene ai democratici; a prescindere dai risultati, ogni volta che tornano di attualità sono un danno di immagine per il Presidente, e consentono di coltivare un alibi in grado di spiegare, almeno in parte, la clamorosa sconfitta della Clinton alle presidenziali di novembre.

Ma le indagini vanno bene anche alla parte del partito repubblicano più ostile alla Russia, che può usare la loro esistenza come strumento per “ingessare” la politica di Trump nei confronti di Putin.

Insomma, gli avversari di Trump faranno di tutto per prolungare le indagini, anche se conducono a risultati “minori” come i capi d’accusa nei confronti di Manafort  che non c’entrano nulla con il “Russia-gate” (ma del resto, bisogna pur giustificare in qualche modo l’uso del denaro dei contribuenti). Perché l’obiettivo è, comunque, di logorare Trump.

La domanda vera è: per quanto tempo, ancora, Trump, noto per avere un temperamento tutt’altro che accondiscendente, si lascerà logorare?

Ancora un saluto da New York (a proposito di effetti ottici): 





4. Le accuse di Mueller toccano anche Tony Podesta, super lobbista democratico, fratello di John Podesta, capo della campagna presidenziale di Hillary Clinton

lunedì 30 ottobre 2017

L’arresto di Manafort, le indagini “a strascico” e il pesce non troppo piccolo

Con tempismo eccezionale, mentre i media “seri” cominciavano ad interessarsi dei sospetti impicci dei Clinton con la Russia, il procuratore indipendente Robert Mueller ha fatto la sua mossa - che un’immancabile “fonte anonima” ha anticipato alla stampa - e spiccato mandati di arresto nei confronti di Paul Manafort, ex capo della campagna presidenziale di Trump, e del suo socio Rick Gates.
La notizia è chiaramente negativa per Trump, come lo è l’arresto di ogni collaboratore o ex collaboratore di un uomo politico.
Ma al di là del colpo all’immagine, cosa c’entra l’inchiesta su Manafort con il c.d. “Russia-gate”? Ovvero con il tanto dibattuto - ma poco dimostrato - tentativo della Russia di influenzare l’esito delle presidenziali 2016? Soprattutto, Trump è implicato?
È lecito nutrire più di qualche dubbio.
Per capirlo occorre fare un po’ di storia.
Manafort fu assunto da Trump dopo la vittoria alle primarie, per gestire il delicato passaggio della convention repubblicana. Uno dei vari ostacoli che Trump dovette superare nella sua corsa alla Casa Bianca, fu infatti il tentativo dell’establishment del partito di “scippargli” la nomination con il meccanismo dei delegati.
Ebbene, Trump assunse Manafort - esperto navigatore di Washington - proprio per gestire l’appuntamento della convention.
Cosa che Manafort fece brillantemente, ed infatti Trump - odiatissimo dai boss del partito repubblicano, che lo percepiscono come corpo estraneo e pericoloso - ottenne la nomination.
Poche settimane dopo, colpo di scena: Trump chiede e ottiene le dimissioni di Manafort. All’epoca i media lo interpretarono come evento emblematico di una campagna presidenziale “allo sbando”.
Ora sappiamo che Trump chiese a Manafort di farsi da parte perché erano emersi aspetti poco chiari su alcuni suoi affari come lobbista.  Gli stessi affari per cui -  a quanto sembra - viene arrestato oggi. E che non hanno nulla a che fare con Trump.
Rientrano, questi affari di Manafort, nel mandato investigativo del procuratore speciale Mueller? Questa è la domanda da farsi. 
Una classica tecnica investigativa consiste nell’incastrare il pesce piccolo su qualche illecito, qualsiasi illecito, anche minore, per convincerlo, in cambio di un accordo, a cantare sul pesce grosso.
Negli Stati Uniti è una tecnica molto usata, considerata l’ampiezza degli accordi che l’accusa, soprattutto federale, può raggiungere con gli imputati.
Resta da capire se questa tecnica può essere utilizzata anche da un procuratore speciale, a cui è stato dato un mandato ben preciso, che non può trasformarsi in una “pesca a strascico”, nè tantomeno in un “mandato in bianco”.

Un saluto da New York:




lunedì 23 ottobre 2017

Caporetto e la resilienza del popolo italiano

Uno dei tratti tipici del carattere del popolo italiano, potremmo dire una virtù, è la resilienza (in psicologia: la capacità di far fronte, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà). Lo dimostra la vittoria che, nel giro di poco più di un anno, seguì alla battaglia di Caporetto, dove, esattamente un secolo fa, l'esercito italiano subì la più grave disfatta della sua storia.

Tra i peggiori difetti del carattere del popolo italiano, invece, possiamo sicuramente annoverare il modo di selezionare la classe dirigente, che ha fatto sì che per arrivare a Vittorio Veneto  si dovesse prima necessariamente passare per Caporetto, senza poterla evitare. In Italia, infatti, prima di mettere al comando qualcuno di capace di condurre alla vittoria come Armando Diaz, si deve prima sperimentare il disastro sotto la guida di un Luigi Cadorna.

Fonte foto: https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Luigi_Cadorna?uselang=it#/media/File:Luigi_Cadorna_02.jpg

In questa data colma di riferimenti storici, raccomando la lettura di questa intervista, rilasciata al Corriere della Sera dall'attuale Capo di Stato Maggiore della Difesa.

venerdì 20 ottobre 2017

Da #enricostaisereno a #paolostaisereno: tecniche renziane di conquista del potere

Quando si tratta di conquistare il potere, Renzi è tanto cinico quanto capace.

Per indurre Gentiloni - premier di un Governo senza infamie e senza lodi, e quindi legittimo aspirante a ritornare a Palazzo Chigi qualora il risultato delle prossime elezioni fosse incerto - a farsi da parte, non è sufficiente una delibera della direzione nazionale del PD.

Quella bastò per schiantare un premier fragile ed espressione di un establishment politicamente debole (in quel momento) come Enrico #staisereno Letta. 


Ora, invece, si va verso le elezioni e siamo sotto manovra di bilancio, per cui la “sfiducia” del partito di riferimento è impensabile e comunque non sarebbe sufficiente.

Ecco quindi un’operazione un po’ più complessa e raffinata: come "colpo di avvertimento", una mozione parlamentare contro la riconferma dell'attuale governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che fa sembrare Gentiloni (e il Presidente della Repubblica) paladini delle banche ben al di là delle loro colpe, e Renzi - che  è l'ispiratore della mozione - paladino dei risparmiatori gabbati. Sì, proprio quel Renzi che è spesso inseguito, nelle sue apparizioni pubbliche, dai risparmiatori incazzati (anche lui, forse, al di là delle sue colpe), e che ha come suo braccio destro Maria Elena Boschi, accusata ad ogni piè sospinto di conflitto di interessi per i grattacapi del padre per il crac della Banca Popolare dell'Etruria.

Vi è da dire, però, che la mossa di Renzi, per ora, è riuscita, perché Gentiloni, per motivi istituzionali, è obbligato a difendere l’autonomia di Bankitalia, ovvero l’ente che ha avuto il compito di vigilare sulle banche, con i brillanti risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Mentre Renzi, nel frangente, è riuscito a rispolverare l'immagine del "rottamatore", che tanto gli fu utile nella conquista del PD, prima, e di Palazzo Chigi, poi.

Insomma, bisogna riconoscere che quando si tratta di scalare la vetta verso il potere Renzi è bravissimo. Il problema è che, poi, è altrettanto scarso a governare, come hanno dimostrato quasi tre anni di governo e, soprattutto, l'incredibile, clamorosa, autolesionistica scoppola presa al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. 

giovedì 12 ottobre 2017

Gli Usa e l'UNESCO: mi si nota di più se non pago o se me ne vado?

Gli Usa hanno deciso di uscire dall'Unesco.
A dir la verità era da un bel po' che non pagavano la propria quota di finanziamenti. Gli arretrati risalgono alla Presidenza Obama, che aveva sospeso i pagamenti nel 2011 a seguito dell'ingresso nell'Unesco della Palestina, ma questo ora per molti cultori del politicamente corretto e del culto obamista è sgradevole ricordarlo.
Oggi alla Casa Bianca c'è Trump, e la decisione di uscirne giunge tutt'altro che di sorpresa.


Secondo l'ambasciatore Usa all'Onu, Nikki Haley, la goccia che ha fatto traboccare il vaso  della pazienza (cortissima) di Trump è stata la decisione dell'Unesco di dichiarare la città vecchia di Hebron, dove si trova la Tomba dei Patriarchi, sito "palestinese" del Patrimonio Mondiale, contro le vibranti proteste di Israele.
Piccolo particolare: la Tomba dei Patriarchi è il luogo dove, secondo la Bibbia, sono sepolti Abramo, Sara, Isacco, Rebecca e Lia. Insomma, è uno dei luoghi più importanti per la cultura (anche) ebraica.
E' evidente che dichiararlo sito "palestinese" può essere un'ottima decisione solo se si intende essere faziosi e prendere esplicitamente posizione nel conflitto israelo-palestinese - cosa che non compete certamente all'Unesco.
E' chiaro che un'organizzazione internazionale del genere - che dovrebbe promuovere il dialogo e non le divisioni tra i popoli -  merita di essere totalmente azzerata e rifondata.
D'altronde, che l'Unesco sia un consesso permeabile alle infiltrazioni ideologiche, lo capì anche Reagan, che ne uscì nel 1984, seguito a ruota dalla Gran Bretagna della Thatcher; allora l'accusa, nei confronti dell'Unesco, era di filosovietismo.
L'errore degli Stati Uniti è stato rientrarvi nel 2002, con Bush, senza essersi sincerati che la musica, in ambito Unesco, fosse effettivamente cambiata.

domenica 1 ottobre 2017

Referendum in Catalogna: talking points

1. Il referendum di oggi sull'indipendenza della Catalogna è, tecnicamente, illegale. Ma questo, di per sè, non può e non vuole dire tutto. Sono convinto che anche Re Giorgio III del Regno Unito ritenesse illegale la Dichiarazione di Indipendenza delle sue colonie americane. Poi sappiamo com'è finita.

2. Tra Madrid e Barcellona, per quanto mi riguarda, che vinca il migliore. Madrid ha tutto il diritto di impedire la secessione della Catalogna (che, tra l'altro, vale quasi un quinto del PIL spagnolo); meglio, però, non usare la mano troppo pesante. I Catalani, se tanto la desiderano, fanno bene a lottare per l'indipendenza. Spero per loro, però, che poi sappiano cosa farsene (v. punto successivo). Comunque, ricordarsi sempre: le rivoluzioni (vere) non sono pranzi di gala.


(fonte foto)

3. La secessione dalla Spagna significa, per la Catalogna, anche l'uscita dall'Unione Europea. Vale infatti la "dottrina Prodi", che è molto semplice: esci da uno Stato membro? Esci anche dall'Unione. Quindi, stiamo parlando a tutti gli effetti di #CatalExit. L'hanno spiegato bene ai Catalani? Io sospetto di no.

4. Rientrare nell'Unione Europea, poi, per la Catalogna non è scontato. Servirebbe il voto favorevole di tutti gli Stati membri, Spagna in primis. Difficile che votino a favore anche altri Stati membri che hanno, al loro interno, problemi con movimenti separatisti. D'altro canto, se Bruxelles si dimostrasse favorevole agli indipendentisti dei vari Stati membri, temo che sarebbe la fine dell'Unione, che già se la passa male di suo.

5. Nota per i media "seri": per coerenza, non si dovrebbe osteggiare la #Brexit e, al tempo stesso, simpatizzare con la #CatalExit.

6. Vedo che il sindaco di Barcellona, Ada Colau, sta diventando eroina della giornata, almeno per i media italiani, che la intervistano spesso e volentieri approfittando del fatto che parla la nostra lingua. Ricordarsi che è lo stesso sindaco che non ha protetto cittadini e visitatori di Barcellona: nonostante i numerosi avvertimenti, nessuna barriera proteggeva l'area pedonale delle Ramblas il giorno dell'attentato del 17 agosto scorso.

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