domenica 25 agosto 2013

La non secondaria differenza tra ciò che i militanti abortisti desiderano e ciò che la legge dice

In fondo a questo post copio e incollo un articolo comparso su "Il Corriere di Verona" di oggi, che si scaglia contro una convenzione stipulata tra l'USL 16 di Padova e il "Movimento per la Vita". Tale convenzione consente ai militanti di tale Movimento di tenere uno sportello presso l'Ospedale di Piove di Sacco e - sommo scandalo per l'Autrice dell'articolo! - di far circolare i suoi militanti "liberamente nelle corsie per convincere la donna incinta a rinunciare all'aborto".

Articolo a dir poco incredibile, soprattutto nei toni. Per questo consiglio di leggerlo prima di proseguire nella lettura di questo post, così risulterà più chiaro ciò che intendo dire.

Ricordo all'Autrice che secondo la nostra legge (194/78) l'aborto non è strumento per rimediare a problemi di carattere economico o per porre in essere pratiche eugenetiche, ma che: " (Art. 4) la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia".

Quindi la ratio della legge è proteggere la salute fisica o psichica della donna, che può essere certamente determinata da condizioni economiche o da previsioni di anomalie o malformazioni del concepito; ma da qui a dire che le motivazioni dell'aborto sono - sic et simpliciter, come pare fare, con levità, l'Autrice - economiche o eugenetiche, ce ne passa. Anzi, devo dire che l'idea dell'aborto prefigurato - sic et simpliciter - come pratica eugenetica fa a dir poco rabbrividire.

E inoltre, e soprattutto, sempre secondo la legge: "(art. 5) Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto".

Pertanto, in base a quanto è sinteticamente riportato nell'articolo, la convenzione tra il "Movimento per la vita" e l'USL 16 di Padova appare in linea al dettato della legge. Non vi è dunque alcuna "libertà negata", come sostiene l'Autrice, ma l'applicazione di quanto previsto dal nostro ordinamento. Fermo restando che il giudizio definitivo deve essere differito alla prova dei fatti, ovvero alla verifica di come, in concreto, questa convenzione funzionerà e se davvero le modalità pratiche di sua applicazione saranno conformi a quanto previsto dalla normativa.

Ma il punto è un altro.

Il punto è che l'Autrice dell'articolo vorrebbe - sbagliando - che le donne fossero lasciate sempre da sole di fronte alla prospettiva di una decisione così drammatica, quale è quella di abortire. Ma, come si è visto, non è ciò che stabilisce la legge. Anzi, a voler "emergere allo scoperto, infischiandosene di leggi" - per usare la terminologia dell'articolo - pare essere proprio l'Autrice.

* * *
Ecco l'articolo comparso oggi 25/8/2013 su "Il Corriere di Verona", in prima pagina.

IL CASO DELL'USL PADOVANA - ANTIABORTISTI LIBERTA' NEGATA
di GABRIELLA IMPERATORI
L'anima bianca del Nordest, che ha alle spalle secoli di etica controriformistica, austro-ungarica, democristiana, curiale, tenta ancora una volta di emergere allo scoperto, infischiandosene di leggi, problemi sanitari, economia, psicologici, ma preoccupata più che altro di non dispiacere alle direttive della Chiesa. Si tratta stavolta della convenzione quinquennale stipulata fra l'Usl 16 di Padova e l'ospedale di Piove di Sacco: il «contratto» consente ai volontari del «Movimento per la vita» non solo di disporre di uno sportello ove con la donna che intende abortire si possa prima tentare un consulto, ma addirittura di circolare liberamente nelle corsie per convincere la donna incinta a rinunciare all'aborto. Ho detto che si tratta di un tentativo, perché la notizia ha già scatenato una bufera di polemiche. Ma come? Non basta una legge che ha quasi mezzo secolo, ribadita da referendum popolare, e che ha non solo evi tato le operazioni cruente e talvolta mortali dell'aborto clandestino, ma ha sensibilmente ridotto il numero delle interruzioni di gravidanza? Non basta il numero spropositato di obiettori, pari nel Veneto all'8o per cento circa fra personale medico e paramedico, non sempre per motivazioni morali ma anche cameristìche, che costringe le donne che scelgono di abortire ad attese, sofferenze, dubbi laceranti, insomma ad allungare i tempi di quello che per tutte è un dramma dolorosissimo? Non basta che perfino la pillola del giorno dopo (che non è abortiva) sia mal vista e crei difficoltà a chi vuole ottenerla? Non basta che la libertà di scelta della donna, garantita dalla legge 194, venga di continuo osteggiata? Non si tratta qui di riaprire il dibattito su una pratica certo discutibile, che si deve cercar di ridurre il più possibile. Le cause dell'aborto, come ognuno sa, sono molteplici e articolate: vanno da motivazioni economiche, eugenetiche, psicologiche, di età, ricondudbili comun que sempre al fatto che se una donna non se la sente di diventare madre possa rinunciarvi, senza per questo essere colpevolizzata come un'assassina. Lo scopo è che un bambino, che non ha chiesto di nascere, sia davvero benvenuto da chi gli darà la vita, non sia un errore o un inciampo. Naturalmente i volontari del movimento assicurano di agire con sensibilità, limitandosi a offrire la possibilità di alternative (a cui le donne hanno certamente già pensato), di fatto però creando confusione e angoscia in persone già provate. E, inoltre, ricordando che per un periodo (18 mesi) la donna che terrà il figlio sarà aiutata economicamente a comperare latte, pannolini, abitini e quanraltro. Ma dopo? C'è un contratto che assicura denaro, cure, vicinanza psicologica per qualche lustro o decennio? E' poi giusto proporre, come talvolta si fa, di portare avanti in ogni caso la gravidanza per magari abbandonare, il neonato all'adozione? È importante solo la vita o anche, per neona ti (come per malati o disperati) la sua qualità e il diritto di viveria con dignità? Su questo ed altro occorre rispettare la coscienza della donna, e m subordine del suo compagno, se ce l'ha. E in ogni caso nella piena osservanza della legge statuale. Altrimenti si può arrivare a forme di violenza psicologica, deleteria m particolare per le persone più deboli".

domenica 5 maggio 2013

Ius soli: come funziona negli altri Stati?

Il governo Letta si è dato un orizzonte di 18 mesi per operare un cambiamento nella politica italiana, ma se continua così rischia di non durare (altri) 18 giorni. 
Prima abbiamo dovuto assistere alla maldestra vicenda del cambio di deleghe al neo-sottosegretario Biancofiore. Per chi conosce il personaggio, l'originaria delega alle pari opportunità era in effetti apparsa la classica battuta da social network, ed il repentino mutamento con quella alla pubblica amministrazione ha dato la sgradevole impressione che, in fondo, una delega valeva l'altra, purchè fosse concesso l'agognato strapuntino. 
La "vendetta" del Cavaliere per il trattamento riservato ad una delle sue fedelissime non si è fatta però attendere, ed ha assunto i tratti di un rilancio sulla questione Imu: o abolizione, o niente fiducia, dice l'aspirante padre costituente. 
Ma non è finita qui. Nel frattempo, il ministro per l'integrazione, Cécile Kyenge, interpretando a suo modo la richiesta di "silenzio stampa" del premier Enrico Letta (ma è difficile criticarla sotto questo aspetto, visto che molti altri neo-ministri, prima di lei, avevano sostanzialmente ignorato tale richiesta), ha sganciato una "bomba" nell'arena politica. Kyenge ha dichiarato in tv che nelle prossime settimane sarà pronto un ddl per introdurre il riconoscimento della cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri, il cosiddetto "ius soli", modificando così l'attuale normativa, che è invece incardinata sul concetto di "ius sanguinis", secondo cui è cittadino italiano per nascita chi, in sostanza, ha almeno un genitore italiano.
Le reazioni degli "alleati" del Pdl non si sono fatte attendere ed esprimono tutte le sfumature del concetto di contrarietà: si va dalla contrarietà di metodo ("non è nel programma", secondo il portavoce vicario del Pdl Anna Maria Bernini), alla contrarietà di merito "no perchè no" ("è un errore", sentenzia Maurizio Gasparri con l'usuale capacità di analisi che lo contraddistingue).
Insomma, su questo argomento ne sentiremo delle belle, anche perchè a favore dello "ius soli" sono giunti  moniti anche dal Colle più alto. Pertanto, vale la pena cominciare a riflettere sull'argomento, dando innanzitutto un'occhiata a come si regolano gli altri Stati.
Una breve sintesi comparata della normativa in materia di cittadinanza si può intanto trovare su questo sito del Comune di Bologna, nonchè su questo articolo del Giornale di un paio di anni fa, che sottolinea come "lo ius sanguinis tutela i diritti dei discendenti degli emigrati, ed è dunque spesso adottato dai paesi interessati da una forte emigrazione, anche storica (Armenia, Irlanda, Italia, Israele), o da ridelimitazioni dei confini (Bulgaria, Croazia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Serbia, Turchia, Ucraina, Ungheria)".

UPDATE: Diamo un po' di numeri, che aiutano a capire meglio.
Secondo Flavia Amabile de "La Stampa" (ripresa da Dagospia.it), "Il 61,4% dei minori stranieri è nato in Italia. I nati con entrambi i genitori stranieri residenti sono stati 77.109 nel 2010 e rappresentano il 13,7% del totale delle nascite in Italia nell'anno. Più in generale risultano circa 573 mila residenti di cittadinanza straniera nati in Italia, pari a circa il 13,5% del totale degli stranieri residenti, che rappresentano una fetta consistente della seconda generazione".

giovedì 21 marzo 2013

Ciao Pietro Mennea, la Freccia del Sud, grande Italiano

E' mancato oggi Pietro Mennea, campione olimpico, già recordman dei 200m piani, politico, avvocato, e tante altre cose, soprattutto grande Italiano, esempio di come il Sud privo di risorse è spesso fucina di prodigi.

Ecco un suo ritratto realizzato da Raisport1:


Ed eccone un altro, sul canale Youtube FIDALlive:


mercoledì 13 marzo 2013

Francesco, il nuovo Papa buono che metterà in riga il Vaticano


Quando il Cardinale protodiacono ha annunciato che il nuovo Papa era il cardinale Bergoglio, in moltissimi (quasi tutti, a parte gli addetti i lavori), spiazzati, si sono detti: “ma come?”.
Stando al sonoro del sito del Corriere, la reazione di Piazza san Pietro è stata di sconcerto.
Poi è arrivato lui. Papa Francesco.
Innanzitutto il nome. Francesco. Già, come San Francesco, il poverello di Assisi, ma anche il rivoluzionario a cui fu detto: “Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina. Un nome che è sintesi di spiritualità, di fede, di povertà. Chissà perché nessun papa, sinora, ha mai scelto il nome di Francesco (san Francesco è patrono d’Italia, tra parentesi)..
E poi: il primo Papa gesuita della storia (in questo senso, il primo Papa “nero”). Ergo coltissimo, di ampie vedute (nella Fede), ma anche addestrato e attrezzato per mettere in riga la Curia romana e per guidare la nave di Pietro nella bagarre sociale e politica. Un po’ italiano, perché argentino di origini italiane. Il primo Papa americano, ma del sud. Non giovanissimo.
Quando si è affacciato al balcone della Loggia delle Benedizioni, la sensazione è stata un po’ scioccante. Insomma, fa sempre effetto vedere “un altro” vestito da Papa.
Subito è apparso un po’ titubante. La gestualità benedicente è migliorabile.

Ma poi, in tre parole, ha conquistato il mondo: “Fratelli e sorelle, buonasera”.
Ora, noi italiani non ci rendiamo conto del privilegio che, in un certo senso, abbiamo: le prime parole del Papa, in quanto vescovo di Roma, sono in italiano. Tutto il mondo sta guardando verso la Basilica di San Pietro, e il Papa, di qualunque nazionalità, esordisce in italiano, e il resto del mondo deve tradurre (tiè).

Grande, ovviamente, era l’attesa per il primo discorso del Papa. Che è un discorso a braccio, non preparato, molto emozionale. Per questo, è il discorso che definisce il “tono” del pontificato.

Ebbene, Papa Francesco si è subito sintonizzato con il popolo di Roma e con il mondo, con poche parole semplici ed alcuni gesti di grande significato. Anzi, in un certo senso “sconvolgenti”.

L’esordio, innanzitutto, in cui c’è un accenno quasi apocalittico, seguito da un’immediata rassicurazione.
Fratelli e sorelle buona sera. Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo, ma siamo qui”.

Incombeva la questione del “Papa emerito”. E Papa Francesco l’ha affrontata con “disinnescante” semplicità, senza nessun imbarazzo. In sostanza: Roma ha un “vescovo emerito”, così come accade spesso – quasi sempre - in tutte le altre diocesi del mondo.

“Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità diocesana di Roma al suo vescovo, grazie. E prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca.
E zac, Papa Francesco ha piazzato lì subito un Pater Ave Gloria, in mondovisione, in prime time. Proprio uno “scherzetto da prete”, verrebbe da dire. In un minuto, ha costretto a pregare tutti coloro che erano presenti o sintonizzati, non solo fedeli, ma anche atei e agnostici, e tutti coloro che stavano guardando per analisi politica o anche solo per mera curiosità. Nella sua semplicità, “l’attacco” del Padre Nostro è stato un colpo “da maestro”, nel senso del magistero di Papa Francesco: partire dalla preghiera più semplice. Impossibile non pensare al famoso passo di Luca: “un giorno,Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: Signore, insegnaci a Pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Allora Gesù disse: Quando pregate, dite: "Padre, sia santificato il tuo nome…”. Papa Francesco è anche un po' inciampato con l'italiano ("Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con ti..."), ma per questo è già simpatico.
Poi, il “tono”, il “contenuto” del pontificato: fratellanza, amore, fiducia. Evangelizzazione di Roma, e da Roma. Con un gesto davvero “sconvolgente”. Papa Francesco, vescovo di Roma, che si china per accogliere la preghiera del popolo di Roma su di lui. Un gesto sconvolgente, se ci pensiamo. Davvero francescano. A suo modo, fantascienza. A qualcuno, in Curia, sarà venuto un coccolone.
E adesso incominciamo questo cammino, vescovo e popolo, questo cammino della chiesa di Roma che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo. Perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo e chi mi aiuterà è il mio cardinale vicario qui presente sia fruttuoso nell’evangelizzazione di questa bella città. Adesso vorrei dare la benedizione. Ma prima, prima vi chiedo un favore. Prima che il vescovo benedica il popolo vi chiedo che voi pregate il Signore perché mi benedica. La preghiera del popolo chiedendo la benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su me”.
Poi la benedizione “Urbi et Orbi” e l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli presenti, e a tutti quelli che ricevono la sua benedizione “a mezzo della radio, della televisione, e delle nuove tecnologie di comunicazione”. Insomma, la prima benedizione con indulgenza plenaria via internet. In realtà, per tutti, anche per coloro che non erano connessi, come ha precisato Papa Francesco: “A tutto il mondo. a tutti gli uomini e donne di buona volontà”. E giù con il latinorum.
E poi la chiusa finale.
Fratelli e sorelle, vi lascio, grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me. A presto, ci vediamo presto. Domani voglio andare a pregare la Madonna perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo”.
Il messaggio è chiaro. A letto presto, perché domattina ci si alza presto per lavorare di lena. Per riparare la Casa. Il tempo stringe. In Curia sono avvisati; secondo me non tutti, in Vaticano, stanotte dormiranno sonni tranquilli.

UPDATE: 
1. 25 cose da sapere sul nuovo Papa secondo www.today.it http://www.today.it/cronaca/25-cose-da-sapere-papa-francesco-bergoglio.html
2. Il nuovo Papa si è presentato senza la stola corale simbolo liturgico dell'autorità papale, ma semplicemente vestito di bianco. Il "Vescovo vestito di bianco".
3. La richiesta al Popolo di pregare per chiedere la benedizione del suo Vescovo ha un forste senso di Concilio Vaticano II (il "Popolo di Dio").

lunedì 11 marzo 2013

Memorie di un militante di FLI disperso nel deserto (titolo alternativo: Avevamo – e abbiamo – ragione noi)


(Questo manoscritto si ritiene appartenga ad un militante di Futuro e Libertà, il cui bagaglio è stato rinvenuto da alcuni nomadi nel bel mezzo del deserto del Gobi. Del militante, purtroppo, ancora nessuna traccia).


Scrivo mentre le cronache sono invase dalla “marcia” dei deputati del PDL sul Tribunale di Milano, per esprimere “solidarietà” a Silvio Berlusconi. D’altro canto, molti di loro hanno votato in Parlamento che Ruby è la nipote di Mubarak, per cui va riconosciuta una certa coerenza nella loro condotta.

[N.d.R. Non chiedetemi come io sia informato, nel deserto del Gobi, delle vicende del Tribunale di Milano. Accontentatevi altrimenti viene meno l’artificio letterario. Comunque vi basti sapere che sono ancora vivo e sostanzialmente in buona salute, anche se momentaneamente scomparso].

Riprendiamo. Non mi pare fuori tema richiamare questa vicenda del “processo Ruby” (davvero triste, a mio modo di vedere), come premessa di una breve riflessione sul risultato elettorale di Futuro e Libertà, partito in cui ho militato fin dalla sua fondazione, e per il quale mi sono anche candidato nella circoscrizione Veneto1 alla Camera dei Deputati – in una posizione volutamente secondaria, per puro “spirito di servizio”.

A cosa serve richiamare la crepuscolare manifestazione dei deputati PDL a sostegno di Silvio Berlusconi (ben altra cosa il finale che si era immaginato Nanni Moretti nel “Caimano”!!) per riflettere su Futuro e Libertà? A mio parere molto. Serve a ricordare, infatti, una delle ragioni fondamentali per cui Futuro e Libertà nacque, ovvero l’impossibilità politica, per molti, di proseguire un percorso comune con un personaggio come Silvio Berlusconi. La richiesta di giudizio immediato per la presunta “compravendita” del senatore De Gregorio – altra notizia di oggi [N.d.R. qui nel deserto del Gobi le notizie arrivano subito] - non ci sorprende. Semmai i contorni di questa vicenda sono venuti a galla troppo tardi.

Insomma, è essenziale tenere presente il contesto di partenza – Berlusconi e il berlusconismo - nei confronti del quale Futuro e Libertà ha inteso reagire. E’ alla luce di questo contesto che vanno valutati torti, ragioni, e anche responsabilità del catastrofico risultato elettorale di FLI.

Il Presidente Gianfranco Fini si è assunto tutta la responsabilità di tale risultato. Ed è scontato dire che le responsabilità sono maggiori al vertice, e degradano e diminuiscono via via, mentre si scende verso il basso, verso la “base”. Ma si tratterebbe di un’analisi superficiale e incompleta, perché la questione è ben più complessa.

Voglio affrontare subito l’argomento più scomodo, ovvero la vicenda della “casa di Montecarlo”. Confesso che su tale questione Fini mi ha profondamente deluso. E non tanto per il merito della vicenda, che io ritengo politicamente irrilevante, così come lo è sul piano giuridico (come hanno certificato i magistrati). Sono rimasto grandemente deluso da come Fini, politico di grande esperienza, ha gestito la vicenda dal punto di vista delle comunicazione. Fini non avrebbe dovuto mettere la mano sul fuoco per le persone a lui più vicine, che purtroppo, forse, hanno tradito la sua fiducia; per il semplice motivo che, assieme a lui, per quella vicenda tutti i militanti di Futuro e Libertà sono rimasti con la mano ustionata.

Tuttavia, questo grave errore di comunicazione di Fini è, a mio parere, assolutamente compensato dai numerosi atti di dignità, responsabilità e coraggio compiuti dal Presidente, che mi hanno personalmente convinto a seguirlo fino in fondo in questa “traversata nel deserto” [N.d.R.: ecco perché il deserto del Gobi], conclusasi, purtroppo, con la morte per sete [N.d.R.: non parlo di me, io sono in gran forma]. Ne elenco tre.

Innanzitutto, l’atto di dignità con cui Fini si è proposto come leader di tutti coloro che non tolleravano più la leadership di Berlusconi, per i motivi che ho accennato in premessa, ma anche e soprattutto per la sua politica  (vi ricordate il baciamano a Gheddafi, l’amicizia subalterna con Putin, l’alleanza prona alla Lega sui temi dell’immigrazione?), per il modo in cui aveva strutturato il PDL, e per le dinamiche interne a tale “partito”. Certo, ci sarà stata una dose di calcolo politico negli atti di Fini che hanno condotto alla rottura con Berlusconi e alla conseguente espulsione di Fini stesso dal PDL; fatto sta, però, che nel centrodestra nessun altro ha avuto il coraggio di opporsi con forza a Berlusconi nel corso della XVI legislatura.

Un secondo atto di dignità - e soprattutto di responsabilità - è stata, a mio parere, la decisione di Fini di completare il proprio mandato di Presidente della Camera. Sono certo che su questo punto non tutti, e anzi forse non molti sono d’accordo. Tuttavia io sono convinto che per Fini, in certi momenti, sarebbe stato molto più facile dimettersi da tale carica. Forse, dal punto di vista del consenso elettorale, gli sarebbe addirittura convenuto. Io sono convinto che non l’abbia fatto per non consegnare la Presidenza della Camera ad un pretoriano di Berlusconi, con le relative inevitabili ripercussioni sull’andamento dei lavori parlamentari. Un giorno, quando sarà possibile farlo con il dovuto distacco, occorrerà analizzare con oggettività il ruolo che Fini, quale Presidente della Camera, ha avuto come barriera contro le innumerevoli, ripetute proposte di legge ad personam volute dai Berlusconi e dai suoi. Un ruolo di cui Fini forse, ad un certo punto, è rimasto politicamente “prigioniero”.

Il terzo atto di grande dignità, responsabilità e coraggio di Fini è stato, infine, quello di candidarsi alla Camera, alla testa delle liste di Futuro e Libertà. Fini ha rischiato in prima persona, ha giocato la partita a viso aperto, e ha perso, affrontando la sconfitta (a differenza, ad esempio, di Casini che furbescamente si è rifugiato in un seggio sicuro al Senato nella lista Monti). A mio parere, proprio alla luce di tutto quanto sopra, si tratta di un gesto che compensa ogni torto o responsabilità che Fini possa aver avuto dalla fondazione di FLI fino ad oggi. Personalmente, si tratta del gesto che ha convinto anche me a candidarmi, a “metterci la faccia”, come si dice in gergo, anche se in una posizione di rincalzo. Il gesto di coraggio e dignità di Fini è stato condiviso da tutti coloro che, in questo contesto, e pur a fronte di sondaggi drammatici, hanno avuto il coraggio di candidarsi, e di esporsi, per una semplice e giusta convinzione: avevamo - e abbiamo - ragione noi, su tutto: su Berlusconi, sul PDL (solo “da dentro”, ahimè, ci siamo resi conto, dopo essere stati ingannati dalla chimera di un grande partito di centrodestra, in un contesto bipolare…), su Putin, su Gheddafi, su Scilipoti e Razzi, sulla Lega, sulle leggi ad personam, eccetera eccetera.

Insomma, l’Italia è davvero strana, o quantomeno è davvero strano il momento che l’Italia sta vivendo. Un momento in cui l’immagine ed il consenso elettorale di Fini vengono azzerati da un’ingenuità politicamente e giuridicamente irrilevante, mentre Berlusconi, nonostante tutti gli scandali, le condanne, il conflitto d’interessi, etc., è ancora premiato dal consenso di parte importante degli Italiani.

L’Italia è un Paese in cui la promessa irresponsabile di Berlusconi di restituire l’IMU è vincente, mentre viene punito l’atto di responsabilità di Fini e di FLI di sostenere il governo Monti e le sue politiche di rigore – inevitabili dopo le decisioni che proprio Berlusconi aveva preso prima di abbandonare la nave, così da lasciare proprio a Monti i contraccolpi dell’inevitabile impopolarità.

La riflessione è evidentemente amara, soprattutto per il suo significato politico. I flussi elettorali rivelano che la maggior parte dei voti alla coalizione Monti sono arrivati dal centro-sinistra. Purtroppo, il senso della responsabilità istituzionale e del rigore economico nel contesto UE - che sono sostanzialmente declinazioni particolari e puntuali di un più ampio concetto di legalità - in questo momento non fanno breccia nell’elettorato di centrodestra. Quest’ultimo, infatti, continua a riconoscersi in Berlusconi, quale paladino e difensore degli status che tutti in Italia hanno a cuore, della sicurezza di molti imprenditori, ma, soprattutto, di moltissimi piccoli proprietari immobiliari (la stragrande maggioranza degli Italiani). Poco importa che Berlusconi faccia promesse irresponsabili e irrealizzabili, che abbia a cuore solo i propri interessi, e che solletichi a volte la parte meno nobile dell’animo italiano. C’è un vasto blocco sociale di centrodestra che guarda ancora a Berlusconi, perché vede minacciate le proprie sicurezze. E non è sensibile a parole come responsabilità, rigore, legalità, soprattutto se le considera scuse per garantire risorse ad uno Stato avido, iniquo ed inefficiente.

A mio parere queste sono le riflessioni principali che vanno tenute in considerazione, per analizzare il risultato elettorale, ed anzi tutta la parabola di FLI, dalla sua fondazione fino ad oggi.

Vi sono poi alcuni aspetti più puntuali che comunque vanno presi in considerazione.

E’ vero, in FLI ha pesato forse troppo il ruolo dei parlamentari. E’ vero, è stata scelta – sbagliando, a mio parere - la forma del partito “pesante” (con le tessere, le sezioni, i Congressi), ed è stata abbandonata la forma del partito “leggero”. E’ vero, a Milano si è perso lo “spirito di Bastia Umbra”. Tuttavia, non dobbiamo dimenticarci che tra Bastia Umbra e Milano c’è stato il 14 dicembre, data in cui la sfida lanciata a Berlusconi da Gianfranco Fini è stata sconfitta in Parlamento. A mio parere, la scelta di Fini per il partito organizzato, “pesante”, è stata determinata dalla convinzione che sarebbe stato uno strumento indispensabile per affrontare Berlusconi alle elezioni. Certamente a Fini è mancata quella capacità visionaria che – per dirne una, a mò di provocazione - ha consentito a Grillo e Casaleggio di costruire un movimento che ha ottenuto il 25,55% alla Camera, senza un euro di finanziamento pubblico (proprio come FLI). Ma non deve sorprendere la diversità di approccio, che era forse inevitabile: Fini – ed in certa misura tutti coloro che lo hanno seguito - hanno una visione della politica che è agli antipodi rispetto a quella di Grillo e Casaleggio. E l’argomento, badate bene, non va chiuso qui, con autoassoluzioni consolatorie (“non ci hanno capito, amen, peggio per loro”). Va anzi studiato ed approfondito, perché il Movimento Cinque Stelle rappresenta una sfida alla politica e alle istituzioni repubblicane che va ancora compresa in tutti i suoi contorni, gravida com’è di componenti innovative ma anche di potenziali minacce per la democrazia rappresentativa, che costituisce uno dei cardini ispiratori della nostra Costituzione.

Inoltre, è troppo facile puntare il dito contro responsabilità individuali per il risultato elettorale  di FLI – catastrofico ripeto - in Italia e in Veneto (N.d.R. Regione che mi sta a cuore, visto che ci vivo e lavoro, a parte ora che sono momentaneamente disperso nel deserto del Gobi). Chi vuole affrontare questo argomento in maniera completa e oggettiva, deve considerare che proprio a Milano abbiamo assistito a defezioni fondamentali e sconcertanti per il partito veneto (per il modo in cui sono state, anzi, NON sono state sostanzialmente spiegate, almeno alcune, a parte quella di Bellotti che si commenta da sola): Urso, Saia e  Bellotti (che a dir la verità mi scoccia menzionare due volte nello stesso paragrafo, perché non merita così tanta pubblicità e attenzione, ma amen e così sia). A mio modo di vedere, FLI Veneto è rimasto scosso nelle fondamenta da tali atti, e i contraccolpi non sono mai davvero cessati. Per questo occorre riconoscere il merito di chi ha accettato, nonostante tutto, dopo tali defezioni, di raccogliere il testimone e continuare la sfida. E mi riferisco soprattutto a Giorgio Conte, che si è trovato a guidare uno dei coordinamenti regionali più difficili, in uno scenario ancora più difficile. Io personalmente lo ringrazio per questo; è stato un costante punto di riferimento, e ritengo che lo dobbiamo ringraziare tutti. Un solo dato di fatto, su tutti: se Giorgio non avesse resistito alle sirene berlusconiane, FLI Veneto sarebbe morto ben prima di febbraio 2013.

Cosa fare adesso? Beh, mi pare che FLI continui ad esistere giuridicamente, ma sia  politicamente estinto. Abbiamo appreso [anche qui nel deserto del Gobi] che le cariche sono state “azzerate”, compresa quella di Fini, e che verrà convocata un’assemblea costituente per un progetto nuovo. [Qui nel deserto del Gobi non abbiamo ben capito cosa significhi, ma tant’è].

A mio parere – ma forse sono un po’ naif, e troppo legato alle regole – servirebbe un Congresso, anche solo per sciogliersi. Ma non è questo il punto essenziale. Ciò che conta è che vedo i deputati del PDL che fanno un sit in davanti al Tribunale di Milano perché – evidentemente - sono ancora convinti che Ruby fosse la nipote di Mubarak, e mi ripeto: avevamo, e abbiamo ragione noi. E’ da questo che dobbiamo ripartire.

venerdì 8 marzo 2013

Una storia per l’8 marzo: Kathrine Switzer, la prima maratoneta “ufficiale”


Oggi, 8 marzo, si festeggia la giornata internazionale della donna (comunemente definita, anche se in maniera impropria, festa della donna”).
Stamattina su Radio24 sentivo che a “nove in punto” si parlava di quote rosa. Una combattiva ricercatrice dell’Istituto Bruno Leoni le criticava, sostenendo che non si tratta di uno strumento valido per garantire l’avanzamento della condizione femminile ed un’effettiva meritocrazia, perché – all’occorrenza – i potenti di turno hanno tutti, solitamente, una moglie, una figlia, un’amante da piazzare in questo o quell’incarico per riempire – appunto – una quota rosa.
Pensando a queste cose, mi è venuta in mente la storia di Kathrine Switzer. Si tratta di una di quelle storie di sport a mio parere speciali, per la loro carica simbolica.
Ora, Kathrine Switzer è la prima donna ad aver corso ufficialmente una maratona (non olimpica).
Facciamo un po’ di storia. E’ noto che nell’antica Grecia, le donne non potevano assolutamente partecipare alle competizioni atletiche; anzi erano tenute proprio alla larga, non potevano nemmeno assistere come spettatrici. Per quanto riguarda le Olimpiadi moderne (la prima edizione è del 1896), le donne sono state ammesse solo nel 1928. Fino al 1968, però, per quanto riguarda le gare di corsa, la distanza massima prevista per le donne erano gli 800m; solo nel 1972 sono stati introdotti i 1500m. Il motivo? Organizzatori e medici erano convinti che il fisico femminile non fosse in grado di sostenere distanze più lunghe.
Però si sa che le donne sono testarde, e quindi in molte provarono fin da subito a correre la maratona anche senza permesso “ufficiale”. Si dice che la greca Stamatis Rovithi abbia corso la distanza da Maratona ad Atene nel 1896, un mese prima della maratona olimpica, ma non si sa il tempo. Un mese dopo la greca Melpomene tentò di partecipare alla prima maratona olimpica vera e propria, ma fu allontanata dalla gara, che però corse fino in fondo costeggiando, al di fuori, il percorso ufficiale. Ci mise un’ora e mezzo in più del vincitore Spiridon Louis, ma fu comunque una grande dimostrazione di volontà.
Per quanto riguarda le maratone non olimpiche, si hanno i tempi ufficiosi di due donne che le completarono, anche se non erano state ufficialmente iscritte – diciamo, così, “nell’anonimato”: Violet Piercy (3h40'22", 1926), di Roberta Gibb (3h21'25", 1966, Boston). La partecipazione "non ufficiale" della Gibb nel 1966, in particolare, ebbe notevole risonanza.
E qui arriviamo a Kathrine Switzer, studentessa di giornalismo, la prima donna ad essere ammessa ufficialmente, con tanto di pettorale, ad una maratona non olimpica, sempre a Boston. Era il 1967. In realtà, dire che era stata ammessa “ufficialmente” è un po’ una forzatura. Si era registrata come K.V. Switzer, e gli organizzatori non si erano accorti che si trattava di una donna. Lei però sostiene che non aveva voluto ingannarli, perché da tempo firmava così i propri articoli sul giornale del college (chissà se gli organizzatori della maratona di Boston li avevano mai letti). Insomma, fatto sta che la Switzer si presentò alla linea di partenza col suo bel pettorale, e allo sparo del via cominciò a correre in tutta tranquillità. Finchè la sua strada si incrociò con Jock Semple, runner, fisioterapista, allenatore e – soprattutto – giudice di gara della maratona di Boston.
Semple era uno che ci teneva alla “serietà” della maratona. Infatti si era contraddistinto per i modi rudi – ai limiti della denuncia – con cui aveva più volte allontanato dalla corsa coloro che – a volte studenti del MIT o di Harvard vestiti con costumi stravaganti – si “imbucavano” nella gara come bravata goliardica.
Ebbene, quando il rigoroso Jock Semple si rese conto che una donna, la Switzer appunto, stava correndo la maratona, le corse dietro urlandole: “Via dalla mia gara e dammi quel pettorale!”. Ma il fidanzato della Switzer, che la accompagnava, respinse Semple in malo modo, e altri corridori le fecero letteralmente “scudo “ e la scortarono per l’intera maratona fino al traguardo.



Il fatto ebbe grande risonanza, e ne seguirono non poche polemiche. Ci volle ancora un po’ perché la maratona fosse ritenuto uno sport “per signorine” (e signore). Nel 1972 le donne furono infine ammesse alla maratona di Boston. La prima maratona femminile internazionale si tenne in Germania, a Weldniel. La prima maratona olimpica, poi, addirittura nel 1984 a Los Angeles (vinse l’americana Joan Benoit).
Però è chiaro che una “spallata” nel muro del pregiudizio l’aveva data proprio Kathrine Switzer (assieme a Roberta Gibb e alle altre donne che avevano sfidato quel muro).
E si tratta davvero di una storia di quelle edificanti, con tanto di lieto fine. Infatti, l’arcigno giudice di gara Semple si riconciliò pubblicamente con la Switzer, e divenne un sostenitore della partecipazione femminile alla maratona. Insomma, la Switzer aveva vinto su tutta la linea.



Auguri a tutte le donne!


(P.S. grazie a Michele Fiorini che mi ha spinto a scrivere questo post!)
Le foto sono tratte da qui: http://globedia.com/kathrine-switzer-heroina-atletas

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