mercoledì 13 dicembre 2017

Grosso guaio in Alabama

Cos’è successo in Alabama?


Per capirlo, innanzitutto sarebbe utile rammentare che durante le primarie Trump non appoggiò lo sconfitto Roy Moore, ma un altro candidato, Luther Strange. Per una volta, Trump aveva cercato di stare fuori dalla guerra civile dentro al Partito Repubbkicano di cui era stato principale protagonista nel 2016, e ciò al fine di preservare gli ondivaghi legami con i membri repubblicani al Congresso, il cui appoggio è indispensabile per mandare avanti l’agenda legislativa.


Roy Moore, lo sconfitto in Alabama, era uomo di Steve Bannon. Le suppletive per il seggio senatoriale sono state un test decisivo per l’insurrezione che Bannon vuole capeggiare contro l’establishment del Partito Repubblicano. Erano più una sfida tra Bannon e il Partito Repubblicano, che tra il Partito Repubblicano e quello Democratico.


Per questo il Partito ha appoggiato Moore nello stesso modo in cui ha appoggiato, dopo la nomination, Trump  nel 2016: in maniera insincera, scappando durante la tempesta. E di tempesta ce ne è stata, eccome. E c’è stato tanto fango.


È un disastro che condurrà all’inasprimento della guerra civile dentro al Partito Repubblicano.


ADDENDUM: La caccia ai politici maschi è aperta almeno fino alle elezioni di medio termine. Come arma è ammesso ogni tipo di accusa di molestia o cumunque di comportamento sessuale scorretto, anche se riferita a fatti avvenuti decenni fa, e anche se prova di qualsiasi conferma in sede giudiziaria.



martedì 12 dicembre 2017

Bitter battlefield Alabama

My take on what happened in Alabama.


Trump endorsed and campaigned for Luther Strange during the Alabama Senate primary. This should be remembered. Trump tried to stay out from the GOP civil war in order to preserve his ties with Congressional Republicans, whose support is essential to advance his legislative agenda.


Moore was pure Bannon. A test case for Bannon’s insurgency against GOP establishment. Alabama Senate race was almost more Bannon v. GOP, than Republican Party v. Dem Party.  


GOP establishment supported Moore just like supported candidate Trump in 2016: insincerely, running away during the storm. And there was a lot of storm. And a lot of dirt.


This is a massive failure that will lead to an even uglier civil war inside GOP.


ADDENDUM: The hunt to male politicians is open  until the 2018 elections at the minimum. As ammunition, any kind of allegation of sexual harassment and/or misconduct is admitted, no matter if referred to facts allegedly happened decades ago, no matter if without any judicial verification. 




giovedì 7 dicembre 2017

Ancora su Trump e Gerusalemme: non si era mai visto un Presidente che mantiene le promesse elettorali

La vicenda di Gerusalemme è un esempio emblematico della principale differenza tra Trump e i suoi predecessori - gli ultimi tre, almeno.
Questi ultimi, come è tipico dei politici di professione, su molti argomenti si sono limitati  a fare, durante la campagna elettorale, promesse che poi non hanno mantenuto.
Trump, invece, ha la tendenza a mantenere gli impegni presi. 
Attenzione:  Clinton, Bush jr, Obama hanno TUTTI promesso di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele (guardare, per credere, il video sotto).
Ma dopo aver fatto questa promessa, tutti e tre si sono furbescamente avvalsi  della clausoletta che consentiva loro di posticipare la decisione presa dal Congresso nel 1995, lasciando così  la “patata bollente” al successivo inquilino della Casa Bianca.
Pochi episodi come questo dimostrano la suprema ipocrisia di quei sostenitori di Clinton, Bush jr e Obama che ora accusano Trump di aver commesso, su Gerusalemme, "un errore".
È semplicemente illogico sostenere che ciò che i loro beniamini promisero di fare quando si trattava di assicurarsi la poltrona sia divenuto, nel frattempo, una scelta sbagliata.
Perché ciò implicherebbe una massiccia dose di autocritica, sull’argomento, da parte di Clinton, Bush jr e Obama, che però nessuno, in queste ore, ha sentito, nè da loro, nè dai loro sostenitori.
La realtà, come spesso acccade, è molto più semplice: Trump ha avuto gli attributi di fare ciò che i suoi predecessori (ripetiamo: Clinton, Bush jr, Obama) avevano avuto solo il “coraggio” di promettere.
E molte delle persone che, in Occidente, attualmente lo criticano sono, semplicemente, in mala fede.





martedì 5 dicembre 2017

Su Gerusalemme Trump vuole realizzare ciò che il Congresso ha deciso ventidue anni fa

“Trump dichiara Gerusalemme capitale d’Israele”.

“Trump decide di spostare l’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme”.

“Trump mette a rischio il processo di pace in Medio Oriente”.

Ma è davvero così?

Andiamo con ordine.

È stato il Congresso degli Stati Uniti, ovvero l’organo legislativo, e non Trump, a dire per primo che Gerusalemme  “dovrebbe” essere riconosciuta capitale d’Israele, e che  l’ambasciata “dovrebbe” essere spostata da Tel Aviv a Gerusalemme. La legge è nota come Jerusalem Embassy Act e fu approvata nel 1995 a  larghissima maggioranza in entrambi i rami del Congresso, quindi con supporto bipartisan. 

All’epoca Presidente era Bill Clinton, il quale dimostrò tutto il suo coraggio politico-istituzionale su un argomento così delicato: non mise il veto, ma nemmeno firmò la legge, che entrò in vigore comunque, ma in virtù della norma della Costituzione che dà al Presidente massimo dieci giorni di tempo (“domeniche escluse”) per rispedire al mittente una legge approvata dal Congresso.

Tanto per chiarirci, nel 1995 Donald Trump pensava a tutt’altro, faceva l’imprenditore, era sposato con Marla Maples e faceva la pubblicità di Pizza Hut.




Ma allora come mai si continua a parlare di questo argomento - come se fosse una clamorosa novità -  a distanza di ventidue anni? Perché la legge contiene una clausola che consente al Presidente di posticipare di sei mesi in sei mesi lo spostamento dell’ambasciata, se ritiene che la sicurezza nazionale sia a rischio.

I vari Presidenti che si sono succeduti - lo stesso Clinton, e poi Bush Jr. e Obama - si sono sempre avvalsi della clausola. Del resto, va considerato che negli Stati Uniti, titolare delle principali prerogative in materia di politica estera non è il Congresso ma il Presidente. La legge però non è mai stata abrogata, e ogni sei mesi il problema si ripresenta. 

E qui arriviamo a Trump. Anch’egli, a giugno, si è avvalso della clausola di rinvio. Ed è stato sbertucciato per essersi rimangiato una promessa elettorale. Ma che abbia intenzione di attuare lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme lo sanno, da mesi, anche i sassi, perché è un impegno che ha preso fin dalle elezioni primarie del Partito Repubblicano.

Il punto è che Trump ha dimostrato la tendenza a mantenere molte delle sue promesse, soprattutto le più controverse - cosa che lo differenzia dai politici “di professione”. Per cui se i leader arabi non l’hanno capito e pensavano che The Donald avrebbe lasciato perdere hanno commesso un errore di valutazione. Ricordiamoci che solo un paio di mesi fa Trump ha deciso di ritirare gli Usa dall’Unesco, a causa della linea anti-israeliana di quella branca del sistema Onu (ed alla faccia di coloro che lo accusano di anti-semitismo).

Resta da analizzare la terza affermazione. La  decisione di Trump metterà davvero fine al processo di pace in Medio Oriente? Considerato l’argomento ci vorrebbe un indovino, e io non lo sono. Al momento, in realtà, non si sa nemmeno quale sia, esattamente, la sua decisione. Mi viene, però, da proporre, a mia volta,  una domanda: ma siamo proprio sicuri che in Medio Oriente sia ancora in corso un processo di pace che possa essere messo a rischio dalla decisione di Trump (qualunque essa sia)? 





domenica 3 dicembre 2017

Il “Russia gate” fa un’altra “vittima”: tra i giornalisti

Venerdì, a margine dell’annuncio del patteggiamento del generale Flynn, l’emittente ABC aveva diffuso lo “scoop” secondo cui Flynn sarebbe pronto a testimoniare di aver ricevuto la direttiva di contattare il governo russo dal “candidato” Trump. Cioè prima delle elezioni.
Se confermata, sarebbe stata una notizia esplosiva, perché Trump ha sempre negato di aver dato personalmente tale direttiva PRIMA delle elezioni (ciò che è avvenuto dopo le elezioni ha natura ben diversa, perché a quel punto Trump era già Presidente eletto).
Nel giro di pochi minuti, si sono incendiati gli animi degli odiatori di Trump, che si sono messi ad urlare all’”impeachment”, perché secondo loro Flynn sarebbe pronto a fornire la prova della “collusione” tra Trump e la Russia per truccare le elezioni.
Ebbene, si trattava di una BALLA. Di una vera e propria “fake news” nella più pura definizione trumpiana del concetto.
L’ABC ha dovuto scusarsi, e il reporter responsabile dello “scoop” fasullo è stato sospeso dal lavoro e dallo stipendio per quattro settimane.




Per il reporter in questione si tratta di poco più di un buffetto sulla guancia.
Il danno è notevole, invece, per la credibilità dell’ABC News, uno dei principali “main stream media”.

venerdì 1 dicembre 2017

Perchè il generale Flynn ha patteggiato?

Flynn patteggia, e gli odiatori di Trump pensano che l'impeachment sarà la prossima settimana.

(Fonte foto: Wikipedia)

Ma è proprio così? Facciamoci un po' di domande.


Quello di indagare sui collegamenti/coordinamenti tra il governo russo e membri della campagna presidenziale di Trump e (attenzione: qui sta il "trucchetto") QUALSIASI cosa che possa sorgere direttamente dall'indagine. Questa seconda parte dell'incarico consente a Mueller di indagare, in pratica, su qualsiasi cosa, purchè ci incappi indagando sulla "Russian collusion". E' evidente il rischio che il tutto si trasformi in una "pesca a strascico" fuori controllo.

Per cosa ha patteggiato Flynn? 

Per aver mentito all'FBI riguardo ad alcuni colloqui avuti con l'ambasciatore russo DOPO le elezioni. In altre parole: Flynn è stato incriminato - e ha patteggiato - non per il CONTENUTO di questi colloqui, ma per come li ha riferiti all'FBI. Come ha fatto Mueller ad incastrarlo? Ci sono le trascrizioni di queste conversazioni. Come mai ci sono queste trascrizioni? Flynn era intercettato? Da chi e perchè?

Perchè Flynn si era dimesso dall'incarico di consigliere per la sicurezza nazionale di Trump (record negativo di durata: 24 giorni)? 

Ufficialmente, per aver "mentito" o comunque non aver riferito accuratamente al vicepresidente Pence proprio di quei colloqui con l'ambasciatore russo avvenuto DOPO le elezioni, facendogli poi fare una figuraccia in varie interviste.

Ma ci sono delle altre possibilità. Tra tutte, quella che Flynn fosse ricattato. Dai Russi, come sospettava Sally Yates (la vice procuratrice generale obamiana licenziata con grande clamore da Trump)? O da fazioni avverse dell'intelligence e della sicurezza nazionale Usa?

La vicenda puzza di intrigo.

Gli odiatori di Trump, comunque, festeggiano, anche perchè Flynn era quasi la loro bestia nera n. 2 (la n. 1 è The Donald, ovviamente). E confidano su quella parte del patteggiamento in cui si dice che Flynn coopererà con il procuratore speciale Mueller. Sperano quindi che Flynn "vuoti il sacco" su Trump, rivelando chissà cosa.

Nel frattempo, l'ex direttore dell'FBI James Comey, altro soggetto licenziato clamorosamente da Trump, festeggia su Twitter dal suo buen retiro di pensionato intento a scrivere le sue memorie:

Ma dobbiamo davvero aspettarci che Flynn si trasformi, da fedelissimo, ad accusatore di Trump?

Personalmente sono molto scettico. Basta leggere il comunicato dello stesso Flynn per rendersene conto.


E' chiaro che l'uomo vuole difendere la sua reputazione, e non intende certo passare per un "traditore". Gli odiatori di Trump si illudono, se sperano che sia proprio Flynn ad aiutarli.

UPDATE (2/2/2017): consiglio la lettura di questo articolo che spiega molto bene la faccenda dal punto di vista tecnico.

Degno di nota anche questo editoriale del Washington Post (certamente non sospettabile di filo-trumpismo), già il titolo dice tutto: “Flynn’s plea doesn’t prove collusion”. Perché il Washington Post si espone in questo modo? È un classico per i topi abbandonare la nave prima che affondi. E qui la nave è l’indagine di Mueller, una montagna costosissima che sta partorendo solo topolini.


mercoledì 29 novembre 2017

Chi va a studiare all’estero durante le superiori ha una marcia in più: un piccolo aneddoto

Da qualche tempo faccio parte del consiglio di amministrazione della Fondazione Maffei.

Una delle attività della Fondazione consiste Nell’elargire borse di studio a studenti universitari, per supportarli con un contributo economico nel percorso di formazione. Il processo di selezione avviene tramite la presentazione, da parte di ogni candidato, di un “progetto di studi”, in cui deve spiegare cosa intende studiare e perché. I vari progetti vengono, poi,  valutati dal consiglio di amministrazione, che sceglie i più meritevoli.

Dunque, il piccolo aneddoto è questo. Ho appena terminato la lettura delle candidature pervenute per il bando di quest’anno. I progetti sono i più diversi tra loro, per formazione e attuale percorso di studi dei candidati. Si va dallo studente di lettere classiche, a quello di ingegneria aerospaziale.

Una cosa, però, balza agli occhi. I candidati che, durante le superiori, hanno trascorso un periodo di studio all’estero hanno una marcia in più. Hanno le idee molto più chiare su cosa vogliono fare “da grandi”. Sono più determinati rispetto ai loro coetanei che non citano, nel loro curriculum, analoghe esperienze. Questi ultimi  hanno progetti - per quanto lodevoli e interessanti - più vaghi. E tendono ad affidarsi al presupposto implicito che una laurea sia ancora una garanzia di realizzazione. Cosa che non è, in un Paese, come l’Italia, con la disoccupazione giovanile al 30%.

Per cui genitori, fate un favore ai vostri figli. Se potete,  mandateli a studiare all’estero già durante le superiori.

(Mi è sembrata adatta al tema del post questa foto che ho scattato qualche settimana fa in una delle straordinarie sale di studio della New York Public Library)

P.S.: piccolo spazio pubblicità: se volete, potete ovviamente contribuire alle attività della Fondazione. Ad esempio indirizzandole il vostro 5 per mille!

mercoledì 15 novembre 2017

Per vincere, occorre mentalità vincente. E il calcio italiano l’ha persa.

Per chi non si interessa di calcio, la mancata qualificazione della Nazionale ai Mondiali di Russia 2018 può essere un evento trascurabile.
Non sono d’accordo, per almeno tre motivi.
Primo: il danno per il movimento calcistico e per l’indotto che gli gira intorno è nell’ordine di milioni di euro.
Secondo: quando vengono meno i “circenses”, è più facile avvertire la carenza di “panem”. Il calcio è, volenti o nolenti, lo sport nazionale o comunque più popolare, e quindi un formidabile strumento di controllo sociale. Non sia mai che a giugno 2018, in troppi, non potendo dedicarsi alle grigliate e connesse libagioni e discussioni pre e post partita, ci si accorga che un argomento di cui parlare è - ad esempio -  la disoccupazione giovanile è al 30%.
Terzo: sicuramente non trascurabile è il modo in cui il “sistema Italia” (media, tifosi, istituzioni) sta reagendo a questo tracollo sportivo. 
Poiché lo sport è spesso metafora perfetta della vita, la reazione di questi giorni ci rivela molti tratti di quello che è, o è diventato attualmente, il carattere nazionale. Si sprecano le reazioni piagnone, vendicative, le rivalse tra Guelfi e Ghibellini, l’arroccamento nel posto di potere. Un panorama desolante, in cui è difficile trovare una voce autorevole e non compromessa con il “sistema”. 
Il calcio italiano non solo ha perso la capacità di vincere, ma, ciò che è peggio, ha perso la mentalità vincente.
Ma poiché, grazie al cielo, siamo l’Italia e - volendo - le risorse le abbiamo, è possibile non solo recuperare la mentalità giusta, ma anche, grazie ad essa, tornare a vincere.
Non so chi potrebbe essere il nuovo Commissario Tecnico della Nazionale, o il nuovo Presidente della Federcalcio.
Sono però convinto di una cosa: l’esempio più fulgido di mentalità vincente lo abbiamo avuto e in parte lo abbiamo ancora in casa, in quel magnifico sport che si chiama pallavolo, introdotto dal mio idolo di gioventù Julio Velasco, il tecnico che ha portato (quasi) sul tetto del mondo.
Se vogliamo un’altra “Generazione di Fenomeni” anche nel calcio, cominciamo a proiettare questo video nelle scuole, nelle università, nei centri sportivi, nelle aziende. 
Sarà il primo passo nella direzione giusta.




giovedì 9 novembre 2017

Un anno dalla vittoria di Trump

E' passato un anno dalla vittoria di Trump alle elezioni.
Ricordo perfettamente quella notte, che ho passato, da solo, insonne, seguendo lo spoglio via internet, con la tv senza audio sintonizzata su SkyTG24 in attesa delle analisi dell'amico Alessandro Tapparini (unico commentatore italiano che ho mai ascoltato sull'argomento, insieme al direttore de "La Stampa" Maurizio Molinari).
Ricordo di aver seguito la grafica del New York Times, che era disegnata stile contachilometri dell'auto. All'inizio, tutte le lancette davano - ovviamente - vincente la Clinton. Poi, piano piano, inarrestabilmente, mentre si passava dal territorio dei "sondaggi" e delle previsioni degli "esperti" a quello dei voti "veri", le lancette hanno cominciato a spostarsi, dapprima lentamente, poi sempre in maniera sempre più decisa, verso Trump. Un delirio.
Ricordo di essermi crudelmente sintonizzato via web sulla CNN, per vedere, a quel punto, le facce dei giornalisti. Balbettavano. Si trova ancora il video su Youtube. Cliccatissimo. Straordinario. Cercatelo, è estremamente divertente. Impagabile.
Ricordo tutto.



Oggi, però, non voglio fare analisi politiche, ma voglio esprimere una notazione personale.
Per mesi, durante la campagna elettorale, ho passato ore e ore, nel mio tempo libero, a guardare i comizi di Trump, le interviste di Trump, i servizi dei media Usa su Trump.
La sera: Trump. La mattina: Trump. Il week end: Trump. Evviva Youtube, evviva internet, pensavo io. Lo ha sicuramente pensato un po' meno mia moglie, che per mesi ha dovuto, spesso, sorbire la presenza ingombrante di Trump a cena, a colazione, a pranzo.
Perchè se non guardavo i video, le parlavo di Trump. Cercavo di spiegarle che se anche tutti - TUTTI - dicevano che era impossibile una sua vittoria, secondo me, invece, non era così, perchè c'erano dei segnali - mille segnali -  secondo cui l'esito poteva essere diverso. Certo, era difficile, ma era una possibilità. Io cercavo di spiegarle, e lei, cortesemente, mi ascoltava.

A volte, l'argomento emergeva anche a cena con gli amici. Poche volte, però. Perchè per tutti Trump era un personaggio comico, o un pazzo pericoloso, e comunque - secondo tutti i "giornali" e tutti gli "esperti" - non poteva vincere. Appena si capiva che io la pensavo diversamente, si cambiava quasi sempre discorso, in maniera un po' imbarazzata.

Credo che mia moglie, segretamente, in tutti quei mesi, mi abbia un po' compatito. Magari pensando che un marito, in effetti, potrebbe avere difetti peggiori (ovviamente, non ritengo che il mio studio matto e disperatissimo di Trump sia l'unico mio difetto).

Poi è arrivato l'8/11/2016.

E Trump ha vinto.

sabato 4 novembre 2017

Un’altra “teoria” confermata: Hillary stava così male che il Partito Democratico ha cercato un sostituto a due mesi dalle elezioni

I MSM media (media “main stream”, “seri” insomma) durante la campagna delle presidenziali 2016 derubricavano le indiscrezioni sui problemi di salute di Hillary Clinton come “teorie della cospirazione” propagate dalla “alt right”, la “destra alternativa” razzista, suprematista, populista, nazionalista e chi più ne ha più ne metta, capeggiata dal “lupo mannaro” Bannon e sostenitrice di Trump.

Ora Donna Brazile - sempre lei, ex presidente del Partito Democratico e (ex?) fida alleata dei Clinton - racconta nel suo libro che, in sostanza, era tutto vero: i problemi di salute di Hillary erano così seri che è stata studiata un’alternativa (candidare l’ex vice presidente Joe Biden) a soli due mesi dalle elezioni.

Insomma: un’altra “teoria della cospirazione” su Hillary era tutt’altro che una teoria - almeno stando a quanto scrive un diretto testimone oculare.

Cosa sta succedendo? Perché Donna Brazile, all’epoca vicinissima ai Clinton, ha deciso di rivelare queste verità nel suo libro? Perché le indiscrezioni sul libro giungono da fonti di stampa vicine ai Clinton?

Di solito i topi abbandonano la nave quando sentono che sta per affondare...

***

Un saluto dall’Heartland Brewery, ristorante alla base dell’Empire State Building



giovedì 2 novembre 2017

Come Hillary ha “vinto” le primarie democratiche, e perso le elezioni

Vi invito a leggere questo “esplosivo” articolo di Donna Brazile, ex presidente del partito democratico.

Metto le virgolette perché si tratta di cose già note a chi non legge solo il New York Times o Repubblica.

In estrema sintesi, ecco cosa racconta Donna abrasive. Sant’Obama ha lasciato il partito democratico in bancarotta (bravo!). I Clinton hanno escogitato la soluzione: tramite i fondi della campagna di Hillary, hanno prestato al partito democratico le risorse necessarie per la sua sopravvivenza. Sotto forma di “paghetta” mensile. In barba alle regole del partito. 

In questo modo Hillary ha ottenuto il controllo del partito democratico (e dei suoi attivisti e del suo database). Piccolo particolare: questo è avvenuto PRIMA delle primarie, in cui la Clinton ha “vinto” contro Sanders la corsa per la nomination. Qui metto le virgolette perché è evidente che il gioco era truccato. Poiché era Hillary che teneva in piedi la baracca, era scontato  che, in un modo o nell’altro, ottenesse la nomination. E così è stato.

Salvo poi perdere clamorosamente le elezioni.

E come mai?

Anche qui Donna Brazile è molto chiara. Emblematico questo passaggio di una conversazione che ha la Brazile ha avuto con Sanders, quando gli ha dovuto spiegare come i Clinton lo avevano fregato. Sanders le aveva chiesto se, come dicevano tutti i sondaggi, la vittoria della Clinton era certa. Ebbene, ecco cosa gli ha risposto Donna Brazile (ripeto: l’ex presidente del Partito Democratico, non una quisque de popolo): “I had to be frank with him. I did not trust the polls, I said. I told him I had visited states around the country and I found a lack of enthusiasm for her everywhere. I was concerned about the Obama coalition and about millennials”.

Capito? Ai piani più alti del partito democratico si sapeva che i sondaggi erano farlocchi. E che la Clinton, ancora una volta, in campagna elettorale, invece di correre come un cavallo di razza si stava rivelando un ronzino. Si sapeva che l’aver messo le mani - dal punto di vista finanziario - sul partito, non l’aveva resa un candidato vincente.

Questo è il motivo per cui Hillary ha perso. Perché è in grado di vincere solo se le spianano la strada. Perché è sempre stata un candidato debole. Altro che hacker russi.

Un saluto dal ponte di Brooklyn. Non molto distante da qui, la campagna elettorale di Hillary aveva il suo quartier generale. 








martedì 31 ottobre 2017

Le accuse a Manafort non c’entrano nulla con Trump, ma servono comunque allo scopo

L’indagine sul “Russia-gate” sembra arrivata ad una svolta, con le accuse all’ex capo della campagna di Trump, che ha ottenuto i domiciliari a fronte di una cauzione di 10 milioni di dollari.

Ma dove conduce questa svolta? Dritto alla Casa Bianca, come sognano gli odiatori di Trump? 

Per il momento, è più che legittimo dubitarlo.

Innanzitutto, occorre tenere ben presenti alcuni punti fermi.

1. Il procuratore speciale Robert Mueller ha il mandato di indagare sui tentativi di Putin di influenzare le elezioni presidenziali Usa del 2016.

2. Le accuse mosse da Mueller a Manafort, ex capo della campagna presidenziale di Trump, non riguardano le elezioni presidenziali 2016, ma incarichi svolti da Manafort nel 2012 come lobbista dell’ex Presidente dell’Ucraina, Viktor Janukovic. Manafort avrebbe violato la normativa sui lobbisti e in materia fiscale. In sostanza, Manafort avrebbe incaricato due super lobbisti di Washington di influenzare le istituzioni Usa per conto di Janukovic, nascondendo però il suo ruolo e la provenienza dei soldi.

3. Le accuse a Manafort non riguardano minimamente Trump.

4. Le accuse di Mueller toccano anche Tony Podesta, super lobbista democratico, fratello di John Podesta, capo della campagna presidenziale di Hillary Clinton. Il Podesta Group è una delle due società di lobbying che hanno accettato e svolto l’incarico affidato da Manafort.

Quindi cosa c’entra tutto questo con Trump? Niente. O, a tutto voler concedere, c’entra con Trump almeno tanto quanto c’entra con Hillary Clinton.

La cosa, di per sè, non è strana, anzi è un tratto tipico del ruolo delle lobby e dei lobbisti nella politica di Washington. Alla fine, tutti conoscono tutti e tutti fanno affari con tutti. Con un unico vincolo: bisogna rispettare le leggi che cercano di garantire un po’ di trasparenza e, con essa, un livello decente di controllo democratico da parte del cittadino elettore. Proprio quelle leggi che Manafort e il suo amico democratico Podesta avrebbero, nel caso di specie, violato.

Però, tutto questo è piuttosto complicato spiegarlo. Per cui, nell’era della grande semplificazione e delle notizie in tempo reale 24 ore su 24, con la pressante esigenza di fare audience che induce, in mancanza di notizie, a inventarsele, è più facile diffondere l’aspettativa che le accuse a Manafort portino dritte a Trump.

Ma non è così. Per ora, dopo MESI di indagini del procuratore speciale, non c’è ancora uno straccio di prova di collusione tra Trump e la Russia, che rimane una mera congettura. 

In effetti, dopo mesi, le indagini del procuratore speciale continuano ad avere una valenza più politica che giuridica. Di tangibile, c’è solo l’effetto ottico che danneggia l’immagine della presidenza Trump, e la condiziona nei rapporti con la Russia. E questo è il vero motivo per cui le indagini continuano, anche se non portano a nulla.

Questo perché  la sola esistenza delle indagini - a prescindere dal risultato - va bene ai democratici; a prescindere dai risultati, ogni volta che tornano di attualità sono un danno di immagine per il Presidente, e consentono di coltivare un alibi in grado di spiegare, almeno in parte, la clamorosa sconfitta della Clinton alle presidenziali di novembre.

Ma le indagini vanno bene anche alla parte del partito repubblicano più ostile alla Russia, che può usare la loro esistenza come strumento per “ingessare” la politica di Trump nei confronti di Putin.

Insomma, gli avversari di Trump faranno di tutto per prolungare le indagini, anche se conducono a risultati “minori” come i capi d’accusa nei confronti di Manafort  che non c’entrano nulla con il “Russia-gate” (ma del resto, bisogna pur giustificare in qualche modo l’uso del denaro dei contribuenti). Perché l’obiettivo è, comunque, di logorare Trump.

La domanda vera è: per quanto tempo, ancora, Trump, noto per avere un temperamento tutt’altro che accondiscendente, si lascerà logorare?

Ancora un saluto da New York (a proposito di effetti ottici): 





4. Le accuse di Mueller toccano anche Tony Podesta, super lobbista democratico, fratello di John Podesta, capo della campagna presidenziale di Hillary Clinton

lunedì 30 ottobre 2017

L’arresto di Manafort, le indagini “a strascico” e il pesce non troppo piccolo

Con tempismo eccezionale, mentre i media “seri” cominciavano ad interessarsi dei sospetti impicci dei Clinton con la Russia, il procuratore indipendente Robert Mueller ha fatto la sua mossa - che un’immancabile “fonte anonima” ha anticipato alla stampa - e spiccato mandati di arresto nei confronti di Paul Manafort, ex capo della campagna presidenziale di Trump, e del suo socio Rick Gates.
La notizia è chiaramente negativa per Trump, come lo è l’arresto di ogni collaboratore o ex collaboratore di un uomo politico.
Ma al di là del colpo all’immagine, cosa c’entra l’inchiesta su Manafort con il c.d. “Russia-gate”? Ovvero con il tanto dibattuto - ma poco dimostrato - tentativo della Russia di influenzare l’esito delle presidenziali 2016? Soprattutto, Trump è implicato?
È lecito nutrire più di qualche dubbio.
Per capirlo occorre fare un po’ di storia.
Manafort fu assunto da Trump dopo la vittoria alle primarie, per gestire il delicato passaggio della convention repubblicana. Uno dei vari ostacoli che Trump dovette superare nella sua corsa alla Casa Bianca, fu infatti il tentativo dell’establishment del partito di “scippargli” la nomination con il meccanismo dei delegati.
Ebbene, Trump assunse Manafort - esperto navigatore di Washington - proprio per gestire l’appuntamento della convention.
Cosa che Manafort fece brillantemente, ed infatti Trump - odiatissimo dai boss del partito repubblicano, che lo percepiscono come corpo estraneo e pericoloso - ottenne la nomination.
Poche settimane dopo, colpo di scena: Trump chiede e ottiene le dimissioni di Manafort. All’epoca i media lo interpretarono come evento emblematico di una campagna presidenziale “allo sbando”.
Ora sappiamo che Trump chiese a Manafort di farsi da parte perché erano emersi aspetti poco chiari su alcuni suoi affari come lobbista.  Gli stessi affari per cui -  a quanto sembra - viene arrestato oggi. E che non hanno nulla a che fare con Trump.
Rientrano, questi affari di Manafort, nel mandato investigativo del procuratore speciale Mueller? Questa è la domanda da farsi. 
Una classica tecnica investigativa consiste nell’incastrare il pesce piccolo su qualche illecito, qualsiasi illecito, anche minore, per convincerlo, in cambio di un accordo, a cantare sul pesce grosso.
Negli Stati Uniti è una tecnica molto usata, considerata l’ampiezza degli accordi che l’accusa, soprattutto federale, può raggiungere con gli imputati.
Resta da capire se questa tecnica può essere utilizzata anche da un procuratore speciale, a cui è stato dato un mandato ben preciso, che non può trasformarsi in una “pesca a strascico”, nè tantomeno in un “mandato in bianco”.

Un saluto da New York:




lunedì 23 ottobre 2017

Caporetto e la resilienza del popolo italiano

Uno dei tratti tipici del carattere del popolo italiano, potremmo dire una virtù, è la resilienza (in psicologia: la capacità di far fronte, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà). Lo dimostra la vittoria che, nel giro di poco più di un anno, seguì alla battaglia di Caporetto, dove, esattamente un secolo fa, l'esercito italiano subì la più grave disfatta della sua storia.

Tra i peggiori difetti del carattere del popolo italiano, invece, possiamo sicuramente annoverare il modo di selezionare la classe dirigente, che ha fatto sì che per arrivare a Vittorio Veneto  si dovesse prima necessariamente passare per Caporetto, senza poterla evitare. In Italia, infatti, prima di mettere al comando qualcuno di capace di condurre alla vittoria come Armando Diaz, si deve prima sperimentare il disastro sotto la guida di un Luigi Cadorna.

Fonte foto: https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Luigi_Cadorna?uselang=it#/media/File:Luigi_Cadorna_02.jpg

In questa data colma di riferimenti storici, raccomando la lettura di questa intervista, rilasciata al Corriere della Sera dall'attuale Capo di Stato Maggiore della Difesa.

venerdì 20 ottobre 2017

Da #enricostaisereno a #paolostaisereno: tecniche renziane di conquista del potere

Quando si tratta di conquistare il potere, Renzi è tanto cinico quanto capace.

Per indurre Gentiloni - premier di un Governo senza infamie e senza lodi, e quindi legittimo aspirante a ritornare a Palazzo Chigi qualora il risultato delle prossime elezioni fosse incerto - a farsi da parte, non è sufficiente una delibera della direzione nazionale del PD.

Quella bastò per schiantare un premier fragile ed espressione di un establishment politicamente debole (in quel momento) come Enrico #staisereno Letta. 


Ora, invece, si va verso le elezioni e siamo sotto manovra di bilancio, per cui la “sfiducia” del partito di riferimento è impensabile e comunque non sarebbe sufficiente.

Ecco quindi un’operazione un po’ più complessa e raffinata: come "colpo di avvertimento", una mozione parlamentare contro la riconferma dell'attuale governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che fa sembrare Gentiloni (e il Presidente della Repubblica) paladini delle banche ben al di là delle loro colpe, e Renzi - che  è l'ispiratore della mozione - paladino dei risparmiatori gabbati. Sì, proprio quel Renzi che è spesso inseguito, nelle sue apparizioni pubbliche, dai risparmiatori incazzati (anche lui, forse, al di là delle sue colpe), e che ha come suo braccio destro Maria Elena Boschi, accusata ad ogni piè sospinto di conflitto di interessi per i grattacapi del padre per il crac della Banca Popolare dell'Etruria.

Vi è da dire, però, che la mossa di Renzi, per ora, è riuscita, perché Gentiloni, per motivi istituzionali, è obbligato a difendere l’autonomia di Bankitalia, ovvero l’ente che ha avuto il compito di vigilare sulle banche, con i brillanti risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Mentre Renzi, nel frangente, è riuscito a rispolverare l'immagine del "rottamatore", che tanto gli fu utile nella conquista del PD, prima, e di Palazzo Chigi, poi.

Insomma, bisogna riconoscere che quando si tratta di scalare la vetta verso il potere Renzi è bravissimo. Il problema è che, poi, è altrettanto scarso a governare, come hanno dimostrato quasi tre anni di governo e, soprattutto, l'incredibile, clamorosa, autolesionistica scoppola presa al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. 

giovedì 12 ottobre 2017

Gli Usa e l'UNESCO: mi si nota di più se non pago o se me ne vado?

Gli Usa hanno deciso di uscire dall'Unesco.
A dir la verità era da un bel po' che non pagavano la propria quota di finanziamenti. Gli arretrati risalgono alla Presidenza Obama, che aveva sospeso i pagamenti nel 2011 a seguito dell'ingresso nell'Unesco della Palestina, ma questo ora per molti cultori del politicamente corretto e del culto obamista è sgradevole ricordarlo.
Oggi alla Casa Bianca c'è Trump, e la decisione di uscirne giunge tutt'altro che di sorpresa.


Secondo l'ambasciatore Usa all'Onu, Nikki Haley, la goccia che ha fatto traboccare il vaso  della pazienza (cortissima) di Trump è stata la decisione dell'Unesco di dichiarare la città vecchia di Hebron, dove si trova la Tomba dei Patriarchi, sito "palestinese" del Patrimonio Mondiale, contro le vibranti proteste di Israele.
Piccolo particolare: la Tomba dei Patriarchi è il luogo dove, secondo la Bibbia, sono sepolti Abramo, Sara, Isacco, Rebecca e Lia. Insomma, è uno dei luoghi più importanti per la cultura (anche) ebraica.
E' evidente che dichiararlo sito "palestinese" può essere un'ottima decisione solo se si intende essere faziosi e prendere esplicitamente posizione nel conflitto israelo-palestinese - cosa che non compete certamente all'Unesco.
E' chiaro che un'organizzazione internazionale del genere - che dovrebbe promuovere il dialogo e non le divisioni tra i popoli -  merita di essere totalmente azzerata e rifondata.
D'altronde, che l'Unesco sia un consesso permeabile alle infiltrazioni ideologiche, lo capì anche Reagan, che ne uscì nel 1984, seguito a ruota dalla Gran Bretagna della Thatcher; allora l'accusa, nei confronti dell'Unesco, era di filosovietismo.
L'errore degli Stati Uniti è stato rientrarvi nel 2002, con Bush, senza essersi sincerati che la musica, in ambito Unesco, fosse effettivamente cambiata.

domenica 1 ottobre 2017

Referendum in Catalogna: talking points

1. Il referendum di oggi sull'indipendenza della Catalogna è, tecnicamente, illegale. Ma questo, di per sè, non può e non vuole dire tutto. Sono convinto che anche Re Giorgio III del Regno Unito ritenesse illegale la Dichiarazione di Indipendenza delle sue colonie americane. Poi sappiamo com'è finita.

2. Tra Madrid e Barcellona, per quanto mi riguarda, che vinca il migliore. Madrid ha tutto il diritto di impedire la secessione della Catalogna (che, tra l'altro, vale quasi un quinto del PIL spagnolo); meglio, però, non usare la mano troppo pesante. I Catalani, se tanto la desiderano, fanno bene a lottare per l'indipendenza. Spero per loro, però, che poi sappiano cosa farsene (v. punto successivo). Comunque, ricordarsi sempre: le rivoluzioni (vere) non sono pranzi di gala.


(fonte foto)

3. La secessione dalla Spagna significa, per la Catalogna, anche l'uscita dall'Unione Europea. Vale infatti la "dottrina Prodi", che è molto semplice: esci da uno Stato membro? Esci anche dall'Unione. Quindi, stiamo parlando a tutti gli effetti di #CatalExit. L'hanno spiegato bene ai Catalani? Io sospetto di no.

4. Rientrare nell'Unione Europea, poi, per la Catalogna non è scontato. Servirebbe il voto favorevole di tutti gli Stati membri, Spagna in primis. Difficile che votino a favore anche altri Stati membri che hanno, al loro interno, problemi con movimenti separatisti. D'altro canto, se Bruxelles si dimostrasse favorevole agli indipendentisti dei vari Stati membri, temo che sarebbe la fine dell'Unione, che già se la passa male di suo.

5. Nota per i media "seri": per coerenza, non si dovrebbe osteggiare la #Brexit e, al tempo stesso, simpatizzare con la #CatalExit.

6. Vedo che il sindaco di Barcellona, Ada Colau, sta diventando eroina della giornata, almeno per i media italiani, che la intervistano spesso e volentieri approfittando del fatto che parla la nostra lingua. Ricordarsi che è lo stesso sindaco che non ha protetto cittadini e visitatori di Barcellona: nonostante i numerosi avvertimenti, nessuna barriera proteggeva l'area pedonale delle Ramblas il giorno dell'attentato del 17 agosto scorso.

domenica 3 settembre 2017

Obama left for Trump a letter full of errors

Following a tradition set by past Presidents, at the last minute of his tenure, Barack Obama left a handwritten personal letter for the new White House tenant, Donald Trump.

The content of this letter had not been made public until today's CNN"scoop"; CNN claims to have received a copy of the letter from one the visitors to whom Trump would have shown it in these months. Therefore, it would be only the last “leak” from the White House since January 20 to date. This is odd, because Trump could have made the content of the letter public, as the White House did in previous cases.

(fonte foto: Repubblica.it)

But let's leave aside the topic of the "leaks" (real or invented) from the Trump administration; it is more interesting, for now, to focus on the content of the letter.

The most striking thing is that it contains at least two errors (or at least this is what it seems according to the transcription published by CNN).

The first one appears to be a syntax error. CNN, as an act of kindness, seems to have inserted a "to" that remained in Obama's pen.


But the letter also contains a second error, much more relevant.


Now, here Obama is clearly wrong.

Since the end of the Cold War, in less than thirty years the world turned into a real mess – into something that is exactly the opposite of any kind of "order". Without going back to the 90s – shattered by the wars in Yugoslavia, still to be entirely resolved in Bosnia and Kosovo, or the massacres in Africa like the genocide in Rwanda - let's just recall the most recent examples: Iraq, Afghanistan, Georgia / Abkhazia -Ossetia, Ukraine / Donbass, "Arab Springs", Libya, Syria, Isis; North Korea claiming to be a few steps from the ability to launch intercontinental ballistic missiles with nuclear warheads; Iran following the same path; a global terrorist threat to which it seems we need to get “used to”; the war in Mali, the regional conflicts in Africa, and so on.

This interactive page by "l'Espresso" is very useful to get a quick idea of ​​the current international “order”.

The global scenario is so "ordered" that one of the most renokwn quotes by Pope Francis is that "perhapsone can speak of a third world war, one fought piecemeal, inchapters" (the Pope made this statement in 2014, on his way back from a trip to South Korea).

So it's hard to tell where and when Obama saw, during his presidency, "steadily expanding" the international "order" that he advises Trump to defend.

Consequently, there are only two possible alternatives.

The first one: Obama wanted to write international "disorder". Therefore it is a spelling mistake, that unintentionally concealed a more accurate description of the current geopolitical situation, based on a rather cynical pragmatism devoted to the principle harm reduction (a World War III fought piecemeal is better than a full fledged World War III, right?).


The second alternative: for eight years Obama governed trying to convince himself that the mess he had before his eyes was some form of "order." This would not be a spelling mistake, but a much more serious conceptual mistake, that perhaps explains why the international "disorder" dramatically worsened during his presidency – as a consequence of his many mistakes and uncertainties.

La lettera piena di errori che Obama ha lasciato a Trump

Seguendo la tradizione, all'ultimo minuto del suo mandato presidenziale Barack Obama ha lasciato una lettera personale, scritta a mano, per il nuovo inquilino della Casa Bianca Donald Trump.

Il contenuto di questa lettera non era stato reso pubblico, fino allo "scoop" di oggi della CNN, che ne avrebbe ottenuto copia da uno dei visitatori a cui Trump, in questi mesi, l'avrebbe mostrata. Si tratterebbe quindi dell'ennesima "indiscrezione" uscita dalla Casa Bianca dal 20 gennaio ad oggi. La cosa è curiosa, perchè Trump avrebbe potuto benissimo rendere pubblico il contenuto della lettera, come era accaduto in casi precedenti.

(Fonte: Repubblica .it)

Ma lasciamo da parte la questione degli "spifferi" (veri o inventati) che escono dall'amministrazione Trump, perchè è più interessante, in questo momento, concentrarsi sul contenuto della lettera di Obama.

La cosa che balza agli occhi è che contiene almeno due errori (o almeno così sembra dalla trascrizione della CNN).

Il primo parrebbe un errore di sintassi. La CNN, bontà sua, sembra aver inserito un "to" che a Obama era rimasto nella penna.


Ma la lettera contiene anche un secondo errore, ancora più rilevante.


Ora, è evidente che anche qui Obama si è sbagliato.

Dalla fine della Guerra Fredda, in meno di trent'anni il mondo si è trasformato in un vero casino, altro che "ordine". Senza ricordare gli anni novanta - con le guerre in Jugoslavia, che non sono problemi ancora del tutto risolti soprattutto in Bosnia e in Kosovo, o i massacri in Africa come il genocidio in Rwanda - limitiamoci agli esempi più recenti: Iraq, Afghanistan, Georgia/Abkhazia-Ossezia, Ucraina/Donbass, "primavere arabe", Libia, Siria, Isis, Corea del Nord lanciata verso l'acquisizione della capacità di lanciare missili intercontinentali con testate nucleari, Iran avviato sulla stessa strada, la minaccia terrorismo a livello globale con cui ormai dovremmo "convivere", guerra in Mali e conflitti regionali in Africa, eccetera eccetera. 

Questa grafica interattiva de l'Espresso è molto utile per farsi velocemente un'idea dell'attuale "ordine" internazionale.

Lo scenario globale è talmente "ordinato" che una delle più citate affermazioni di Papa Francesco (del 2014, tra l'altro proprio di ritorno da un viaggio in Corea del Sud) è che "siamo entrati nella Terza Guerra Mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli". 

Quindi è difficile dire dove e quando Obama abbia visto, durante la sua presidenza, "espandersi costantemente" l'"ordine" internazionale che consiglia a Trump di difendere. 

Per cui le alternative sono due. 

La prima: intendeva scrivere international "disorder", e si tratterebbe, quindi, di un errore di ortografia che ha involontariamente occultato una descrizione più accurata della situazione geopolitica attuale, basata su un pragmatismo piuttosto cinico ma votato alla riduzione del danno (meglio una Terza Guerra Mondiale a pezzetti di una Terza Guerra Mondiale vera e propria, no?). 

La seconda alternativa: per otto anni Obama ha governato cercando di convincersi che il casino che aveva davanti agli occhi era una qualche forma di "ordine". Il che sarebbe un errore non di ortografia, ma di concetto, assai più grave, e che forse spiegherebbe come mai, il "dis-ordine" internazionale si è drammaticamente aggravato durante la sua presidenza, a causa dei suoi errori e delle sue incertezze.

lunedì 21 agosto 2017

Free speech is the battleground between Trump and his opponents

Trump defends the neo-Nazis. Trump is a white supremacist and Ku Klux Klan sympathizer. Trump is a racist. Trump, with his comments after the events of Charlottesville, failed to comply with the minimum moral standards that must be followed by the President of the United States. In fact, he’s just a crazy man.

This is the message, spreaded urbi et orbi, by "mainstream media", Obama and Clinton supporters, pundits, conformists, and generic lazy thinkers. But the reality is quite different.

To understand the whole story, we need to put it into its context. And in order to do that, a few premises are necessary.

First premise. Claims of racism/neo-Nazism against Trump are a joke and politically motivated. Trump is not a racist, as his personal, business and family history clearly shows. Of course, liberal media time to time recall that old lawsuit for racial discrimination filed against him for one of his NYC condos; but there was no sentence for that controversy, that was closed with an agreement. On the other hand, it should be remembered that Trump received an award, for example, in 1999, by Reverend Jesse Jackson in person. That his son-in-law, Jared Kushner, husband of his favorite daughter Ivanka, is Jewish. That Ivanka herself converted to Judaism in order to marry Jared. That Trump is totally pro Israel, and a big friend of Israel Prime Minister Netanyahu. The images of Trump's visit to the Western Wall have traveled around the world. Obama, on the contrary, was very careful to stay away from the Western Wall while he was President.

Second premise. The facts actually happened in Charlottesville can be summarized as follows. The city of Charlottesville wants to remove the statue of General Lee, head of the Confederate Army during the American Civil / Secession War. It is a complex and delicate matter, touching wounds never completely healed. A protest demonstration is organized, joined, of course, by neo-Nazis, white supremacists, Ku Klux Klan, and other far right-wing groups, looking for publicity. The local authorities deny their authorization. The American Civil Liberties Union (ACLU) files a lawsuit before a federal court against the prohibition. N.B .: ACLU is an organization that has, as its core mission, the defense of constitutional freedoms, and certainly cannot be suspected of being friendly with Trump. ACLU goes to court because it cares about the First Amendment of the US Constitution (topic on which I will return later in this post). The federal court authorizes the demonstration. Leftist militants organize a counter-protest. Without any permit. The police basically stands down, at the orders of a governor and a mayor both members of the Democratic Party, and very hostile to Trump. The two factions inevitably come into contact and clash (violent right-wing activits against violent left-wing activists). In this temporal context, a crazy criminal drives his car into  a crowd, killing a left-wing activist, Heather Heyer.

Until to this point Trump has nothing to do with the whole story. He enters into the picture only because, in crisis situations, everybody in the US looks at the President for guidance. Trump makes a first statement right after the events, saying generic things of good sense, condemning the violent acts committed by both sides.

First “scandal”. Trump’s remarks are criticized as "weak" and "too tolerant". Democrats, main stream media, political conformists, and "traditional" Republicans wanted the usual unilateral standard condemnation of white supremacists, Ku Klux Klan and neo-Nazis, with which they all would have agreed but would have resolved nothing. In other words, a statement in Obama style. For example, right after the death of Michael Brown, an African-American teen ager killed by a white cop, Obama did not hesitate to immediately blame the cop; but his blame was later proved unfounded not only by a local grand jury, but also by Obama’s own Department of Justice.

Trump, on this one as well as many other issues, intends to differentiate himself from Obama, says that wants to evaluate the facts before jumping to conclusions. That is why he, first of all, on Saturday, condemned all the violents, of any side. On Monday, he condemned the Ku Klux Klan, white supremacists, and neo-Nazis. On Tuesday he renewed the explicit condemnation of the Ku Klux Klan, white supremacists, and neo-Nazis, but also the condemnation of violent leftist militants.

Hence the chaos. The blame against Trump is to have put "on the same level" neo-Nazis and anti-racists.

But is it true? Absolutely not.

Trump also answered to an explicit question in that regard. Give a look at the video. (I recommend watching it all, especially from 17:16).



In short, the story reflects a well-established cliché: Trump says something, the media and his opponents accuse him of saying the exact opposite.
The clash is powerful, particularly if you consider all the relevant factors in play.
First factor. Racism and the awful heritage of racial segregation are very serious problems in the United States. From the point of view of the federal legislation, they were dealt with only fifty years ago. From a practical, real point of view, the wounds are open, and discriminations and inequalities still exist, a lot. From a political point of view, it is a delicate matter, because up to about sixty years ago, the Southern racists had their own political home in the Democratic Party (yes, the one that later became Obama’s party). Then they emigrated to the Republican party (yes, the party that used to be Lincoln’s party, the President who abolished slavery). In short, both parties have, in this regard, their skeletons in the closet.
Second factor. In the US, the political debate on this subject, like on many others, is strongly ideological. The trend is to force a polarized “dialogue” along predetermined categories. One of these categories is that the minorities (African Americans, Hispanics, etc.) are supposed to vote for the Democratic Party, whereas the white population is supposed to vote for the Republican Party. Anyone who tries to exit from this scheme, or to break it – for example by reasoning in terms of individual rights, rather than in terms of group identity, and focusing on the relaunch of the internal economy in order to solve the problems of marginalized and poor communities (like Trump does) – is instinctively opposed, because it puts into question the fundamental pillars of the current political discourse.

Third factor. In the United States, the First Amendment of the Federal Constitution guarantees ample protection for the freedom of speech. Freedom of speech is very broad, much broader than, for example, in Italy, where the marches of neo Nazis, Ku Klux Klan or white supremacists, that we see in the United States, are not allowed. The Charlottesville event had been authorized, as I said before, by a federal judge. The radical difference between the United States and Italy (and Europe in general) on this subject has obvious historical roots. Italy and Europe, at one point, all fell into the dark hole of dictatorships. The United States were able to stay immune from totalitarism, and to continue to believe in the principle of the "free market of ideas", i.e. in the free competition of ideas. In other words, in the belief that horrible ideas can be defeated not suppressing them, but putting them in competition with other ideas. The First Amendment, and its legal implications, set the perimeter of the confrontation between Trump and his opponents in the last days. If we do not realize this, we do not understand what is happening, and, more generally, we do not understand the United States.

Fourth factor. In the United States, there is a serious problem of political violence. With Obama at the White House, racial tensions were only partially sublimated in the debate - often harsh, at times violent – on the allegations of brutality and racism moved against the police (Black Lives Matter vs. Blue Lives Matter). After the election of Trump, there have been numerous cases of political violence by so-called "Antifa" (militant "antifascists"). There have been also extremely serious individual episodes of political violence, such as the attempted murder of a Republican Congressman very close to Trump, Steve Scalise. But it must be remembered that also during the Obama presidency a democratic Congresswoman, Gabrielle Giffords, survived an assassination attempt that left her with a sever brain injury (and killed six other people). In short, the problem of political violence, in the US, is serious, very delicate, and must be addressed with sense of responsibility from all sides.

Fifth factor. In this context, the debate on the First Amendment is heated and divisive. Lately, the Left has started to claim the right to suppress the freedom of manifestation of speech by subjects whose ideas are deemed unacceptable, such as neo-Nazis, Ku Klux Klan, white supremacists, etc. In sum, the Left aims to assume the right to exercise, at its own discretion, a sort of "heckler's veto" – that means the possibility to curtail or restrict the speaker’s right, not for reasons of public order (as the technical definition of this legal concept wants), but for purposes – defined by the Left itself – of "democratic and anti-racist vigilance". In practice, the Left wants to make the United States much more similar to Europe, also for reasons of political calculus (to compete in the "free market of ideas" is difficult; it is much easier to compete in a less pluralistic and more conformist environment). Unfortunately, the step to the justification of the use of political violence to “safeguard" minorities considered worthy of protection, is very short.

Here is where Trump comes into play. He bursts in this debate like an alien subject, like something totally extraneous and different. According to Trump, the main role of the President is not to distribute moral judgments or excommunications (like Obama did, instead, in the case of Michael Brown, causing division and resentment), but above all to guarantee law and order, and protect the Constitution. And all its Amendments. Including the First one. The Amendment that, as we have said before, recognizes the right to free speech also to subjects who have horrible ideas. In the conviction that horrible ideas can be defeated not suppressing them, but putting them in competition with other ideas. This is a belief shared not only by Trump, but above all, by the Framers of the Federal Bill of Rights. And there is a reason if the First Amendment is, among all, the first one. Trump is not a man of ideology, but a pragmatic. He is not a racist. Until his successful run against Clinton, Democrats were friends with him and appreciated his donations. More simply, Trump does not believe in the right of the Left to decide which ideas can be expressed, and which ones must be suppressed. He does not believe in the right of the Left to exercise a sort of "heckler's veto" that is not allowed by the US Constitution. Above all, Trump does not believe that the Left is entitled to a moral pass-partout that allows, in addition to the dictatorship of political correctness, also the use of political violence.


Perhaps this is why the reactions to his remarks after Charlottesville have been so virulent. Not only by those who, on the Western side of the Atlantic, are working every day to demolish that almost unique experiment in the human history that is represented – from an institutional point of view – by the United States of America. But also by those who, on the European shore of the Ocean, have never wanted to understand that experiment, or, because of superficiality or malice, are ready to misinterpret it.

giovedì 17 agosto 2017

Il Primo Emendamento è il terreno di scontro tra Trump e i suoi oppositori

Trump difende i nazisti. Trump è amico dei suprematisti bianchi e del Ku Klux Klan. Trump è razzista. Trump, con i suoi commenti dopo i fatti di Charlottesville, è venuto meno agli standard morali minimi che devono essere rispettati dal Presidente degli Stati Uniti. Anzi, è semplicemente pazzo.
Questo è il messaggio bombardato, urbi et orbi, da “main stream media” (= giornaloni seri), seguaci di Obama e Clinton, commentatori, conformisti e pigro-pensanti vari.
Ma la realtà è ben diversa.
Per comprendere la vicenda, occorre collocarla nel suo contesto. E per farlo, sono necessarie due premesse.
Prima premessa. L’accusa a Trump di essere razzista/neonazista è una barzelletta. Trump non è razzista, la sua storia personale, imprenditoriale e famigliare lo dimostra. Certo, all’occorrenza tirano sempre in ballo quella vecchia causa per discriminazione razziale che gli fecero per uno dei suoi condomini; sottacendo che per quella vicenda non vi fu alcuna condanna, perché si chiuse con un accordo. E quindi occorrerebbe ricordare, che so, che Trump è stato premiato nel 1999 dal Reverendo Jesse Jackson, per dirne una. Che suo genero, Jared Kushner, marito della figlia prediletta Ivanka, è ebreo. Che la stessa Ivanka si è convertita, per motivi di matrimonio alla religione ebraica. Che Trump è totalmente pro Israele, oltre ad essere amicone del premier israeliano Netanyahu. Le immagini della visita di Trump al Muro del Pianto hanno fatto il giro del mondo. Obama, per intenderci, da Presidente si guardò bene dall’andarci.
Seconda premessa. I fatti realmente accaduti a Charlottesville possono essere così riassunti. La città di Charlottesville vuole rimuovere la statua del Generale Lee, capo dell’esercito sudista durante la guerra Civile/di Secessione. Argomento complesso e delicato, tocca ferite che non sono mai state curate fino in fondo. Viene organizzata una manifestazione di protesta, a cui aderiscono, ovviamente, anche neo nazisti, suprematisti bianchi, Ku Klux Klan, altri gruppi di destra, che fiutano l’occasione per farsi pubblicità. Le autorità negano il permesso. L’American Civil Liberties Union (ACLU) fa causa. N.B.: l’ACLU è un’organizzazione che ha la missione di difendere le libertà costituzionali, e certamente non è sospettabile di essere favorevole a Trump. La causa l’ACLU la fa perché ha a cuore il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (su cui torno più avanti in questo post). Il tribunale federale autorizza la manifestazione. Militanti di sinistra organizzano una contro-manifestazione di protesta. Senza permesso. La polizia sostanzialmente sta a guardare, per ordine di un governatore e di un sindaco del Partito democratico, entrambi molto ostili a Trump. Le due fazioni, inevitabilmente, vengono a contatto, scoppiano degli scontri (violenti di destra contro violenti di sinistra). In questo contesto temporale, un pazzo criminale si scaglia con l’auto nel mezzo di una manifestazione, e una militante di sinistra, Heather Heyer, perde la vita.
Fin qui Trump non c’entra nulla. Entra in campo solo perché, in situazioni di crisi, tutti, negli Stati Uniti, guardano al Presidente come guida. Lui fa una prima dichiarazione nell’imminenza dei fatti, dicendo cose sostanzialmente di grande buon senso, ovvero condannando gli atti violenti commessi da entrambe le parti.
Primo scandalo. Lo accusano di aver fatto una dichiarazione “debole” e “troppo tollerante”. Democratici, main stream media, conformismo politico e repubblicani “tradizionali” volevano la solita condanna unilaterale standard di suprematisti bianchi, Ku Klux Klan e neonazisti, che avrebbe messo d’accordo tutti e risolto nulla. Come avrebbe fatto Obama. Che ad esempio, nel caso della morte di Michael Brown, ragazzo afroamericano ucciso da poliziotto bianco, non esitò ad accusare subito il poliziotto, salvo essere poi smentito dal proprio Dipartimento di Giustizia.
Trump, anche in questo come su molte altre questioni, intende invece differenziarsi proprio da Obama, e valutare i fatti prima di saltare alle conclusioni. Per questo ha, innanzitutto (sabato) condannato tutti i violenti, di qualunque parte. Lunedì, ha condannato esplicitamente Ku Klux Klan, suprematisti bianchi, neo nazisti. Martedì ha rinnovato la condanna esplicita a Ku Klux Klan, suprematisti bianchi, neo nazisti, ma anche quella nei confronti dei militanti violenti di sinistra.
Da qui il putiferio. L’accusa a Trump è aver messo “sullo stesso piano” neo nazisti e antirazzisti.
Ma è così? No che non è così.
Ha anche risposto ad una domanda esplicita al riguardo. Ecco il video. (Vi consiglio di guardarlo tutto, in particolare dal minuto 17:16). I



Insomma, la vicenda rispecchia un cliché ormai consolidato: Trump dice una cosa, i media e i suoi oppositori lo accusano di aver detto esattamente l’opposto.
Lo scontro è potente se si considerano anche tutti gli altri fattori in gioco.
Primo fattore. Il problema del razzismo e degli strascichi della segregazione razziale è molto grave, negli Stati Uniti. Dal punto di vista legislativo federale è stato affrontato con decisione solo poco più di cinquant’anni fa. Dal punto di vista pratico, reale, le ferite sono aperte, le discriminazioni e le disuguaglianze esistono ancora, eccome. Dal punto di vista politico, è un argomento delicato, perché fino a circa sessant’anni fa i razzisti del Sud avevano la propria casa politica nel partito democratico (sì, nell’attuale partito di Obama). Poi sono emigrati nel partito Repubblicano (sì, nel partito di Lincoln, il presidente che abolì la schiavitù). Insomma, entrambi i partiti hanno, al riguardo, i loro scheletri nell’armadio.
Secondo fattore. Il dibattito politico, negli Stati Uniti, su questo argomento, come su molti altri, è fortemente ideologizzato. La tendenza è quella di imporre un ragionamento per categorie prefissate. Una di queste è che le minoranze (afroamericani, ispanici, etc.) votano tendenzialmente per il partito democratico, i bianchi per il partito repubblicano. Chiunque cerchi di uscire da questo schema, o di scardinarlo, ad esempio ragionando in termini di diritti individuali, a prescindere dalla categoria di appartenenza, e di rilancio dell’economia interna per risolvere i problemi delle comunità più deboli e povere (come fa Trump) viene istintivamente avversato, perché pone in discussione i cardini del sistema politico vigente.
Terzo fattore. Negli Stati Uniti il Primo Emendamento della Costituzione federale tutela in modo molto ampio la libertà di manifestazione del pensiero. La tutela del free speech è molto ampia, molto di più di quella in vigore, per intenderci, in Italia, dove non sarebbero ammesse manifestazioni di neo nazisti, Ku Klux Klan o suprematisti bianchi come quelle che vediamo, invece, autorizzate negli Stati Uniti. La manifestazione di Charlottesville era stata autorizzata, come detto, da un giudice federale. La radicale differenza, su questo argomento, tra Stati Uniti e Italia (ed Europa più in generale) ha evidenti radici storiche. L’Italia e l’Europa sono cadute, ad un certo punto, nel baratro della dittatura. Gli Stati Uniti ne sono rimasti immuni, e hanno potuto continuare a credere nel principio del “free market of ideas”, della libera competizione delle idee. Ovvero nel convincimento che le idee orribili vengono sconfitte non sopprimendole, ma mettendole in competizione con le altre idee. Il Primo Emendamento, e le sue ricadute giuridiche, tracciano il perimetro di scontro di questi giorni tra Trump e i suoi oppositori. Se non teniamo conto questo aspetto, non capiamo quello che sta succedendo, e, più in generale, gli Stati Uniti.
Quarto fattore. Negli Stati Uniti c’è un grave problema di violenza politica. Con Obama, le tensioni razziali sono state solo parzialmente sublimate nel dibattito – spesso duro, a tratti violento – sulle accuse di brutalità e razzismo nei confronti della polizia (Black Lives Matter v. Blue Lives Matter). Eletto Trump, ci sono stati numerosi episodi di violenza politica da parte dei cosiddetti “Antifa”, militanti “antifascisti”. Ci sono stati anche episodi individuali gravissimi, come il tentato omicidio di un parlamentare repubblicano vicino a Trump, Steve Scalise. Del resto, anche durante la presidenza Obama, una parlamentare democratica, Gabrielle Giffords, era stata ridotta in fin di vita da un attentatore bianco. Insomma, il problema della violenza politica è grave, assai delicato, deve essere affrontato con senso responsabilità da tutte le parti.
Quinto fattore. In questo contesto, il dibattito sul Primo Emendamento è più acceso che mai. In estrema sintesi, la sinistra vuole arrogarsi il diritto a sopprimere la libertà di manifestazione del pensiero dei soggetti ritenuti “indegni” ad esprimere le proprie idee, quali neonazisti, Ku Klux Klan, suprematisti bianchi, etc. In sostanza, la sinistra vuole arrogarsi il diritto di esercitare, a proprio arbitrio, una specie di “heckler’s veto”, nozione con cui si definisce la possibilità di vietare il diritto alla manifestazione del pensiero, esercitato, però, non dalla polizia per motivi di ordine pubblico (come vorrebbe la definizione tecnica di questo concetto), bensì da parte di organizzazioni politiche che intendono arrogarsi il ruolo di “vigilanza democratica e antirazzista”. In pratica, la sinistra vuole rendere gli Stati Uniti molto più simili all’Europa, anche per motivi di calcolo politico (competere nel “free market of ideas”, è più difficile; è più facile farlo in un contesto meno pluralista e più conformista). E, purtroppo, il passo fino alla sostanziale giustificazione della violenza politica, quando viene esercitata “a tutela” delle minoranze ritenute degne di protezione, è molto, troppo breve.
Qui entra in gioco Trump. Che in questo dibattito irrompe come un soggetto alieno, come qualcosa di totalmente estraneo e diverso. Secondo Trump, il ruolo del Presidente, innanzitutto, non è quello di distribuire giudizi morali o scomuniche (come fece, ad esempio, precipitosamente Obama nel caso di Michael Brown, provocando divisioni e risentimenti), ma, soprattutto, quello di garantire la legge e l’ordine, e tutelare la Costituzione. Con tutti i suoi Emendamenti. Compreso il Primo. Quello che, come abbiamo detto, garantisce la libertà di manifestazione del pensiero anche da parte di soggetti che hanno idee orribili. Nella convinzione che le idee orribili, come detto, si combattono non sopprimendole, ma mettendole in competizione con le altre idee. Convinzione, questa, non solo di Trump, ma di coloro che scrissero e approvarono il bill of rights federale. E ci sarà un motivo se il Primo Emendamento è, appunto, il primo.
Trump non è un ideologo, ma un pragmatico. Non è un razzista. Fino a quando non si è candidato contro la Clinton i democratici erano suoi amiconi e apprezzavano i suoi assegnoni. Semplicemente, Trump non crede che la sinistra abbia il diritto di decidere quali idee possono essere manifestate, e quali no. Non crede che la sinistra abbia il diritto di esercitare una specie di “heckler’s veto” non consentito dalla Costituzione federale degli Stati Uniti. Soprattutto, Trump non crede che la sinistra abbia diritto ad un lasciapassare morale che le consenta, oltre all’esercizio della dittatura del politicamente corretto, anche l’utilizzo della violenza politica.

Forse è proprio per questo che le reazioni nei confronti delle sue parole sono così virulente. Non solo da parte di coloro che, oltre Atlantico, sono quotidianamente al lavoro per demolire quell’esperimento pressoché unico nella storia dell’uomo rappresentato – dal punto di vista istituzionale – dagli Stati Uniti. Ma anche da parte di coloro che, su questa sponda dell’Oceano, quell’esperimento non hanno mai voluto capirlo o che, per superficialità o per dolo, si prestano a travisarlo.

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