lunedì 29 maggio 2017

Fermate il treno, il macchinista tedesco dà segni di squilibrio

"E' tempo di sbarazzarsi di Trump". Così titola "Der Spiegel" oggi. Considerata l'autorevolezza del settimanale tedesco, è un'affermazione su cui vale la pena soffermarsi.

Cerchiamo, però, di distaccarci dalla polemica più contingente, e di collocarci ad un livello leggermente superiore, al livello, diciamo, della "Storia" con la S maiuscola. 

Da lì si gode una panoramica più ampia, ed è più facile capire che è a dir poco supefacente che un giornale tedesco scriva, con tale superficialità, una roba del genere del Presidente degli Stati Uniti.

Tralasciamo il fatto che l'articolo sia infarcito del più ritrito e inconsistente armamentario polemico elaborato dalla propaganda clintoniana nei confronti di Trump. Quello stesso armamentario - tra parentesi - che ha condotto la Clinton ad una sconfitta tanto cocente quanto imprevista, da cui deve ancora riprendersi.

Sorvoliamo anche sul fatto che invocare la "rimozione" di un Presidente legittimamente eletto dopo poco più di quattro mesi dal suo insediamento dimostra il fondamentale disprezzo che certe elites nutrono per le istituzioni democratiche nazionali.

Qualcuno però deve spiegare all'autore dell'articolo che un conto è "togliere di mezzo" un premier italiano (soprattutto se si chiama Berlusconi);  ben altra cosa, invece, è "togliere di mezzo" un Presidente degli Stati Uniti.

Anche solo immaginarlo è un esercizio molto pericoloso. E francamente preferisco stare alla larga da persone che si lanciano in questo tipo di speculazioni.

D'altro canto, il contesto in cui si inseriscono intemerate come l'articolo di Der Spiegel è stato tracciato dalla stessa Angela Merkel. La Cancelliera, infuriata per l'esito del G7 (unica tra i partecipanti ad averla presa così male, a dir la verità), ha dichiarato di voler dare al progetto europeo un rinnovato impulso. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, se la "molla" di questo nuovo impulso non fosse - e qui sta la novità - non tanto anti-Trump, quanto anti-USA. Se si leggono i commenti di oggi, sembra che, dal punto di vista della Merkel, vi sia stato uno strappo nelle relazioni transatlantiche, e che proprio questo strappo la legittimi a proporsi come leader del progetto europeo.

E' necessario che qualcuno dica chiaramente alla Cancelliera che è giunto il momento di ridimensionare i suoi sogni di gloria.

Un'Europa "anti-USA" non si può fare e non è desiderabile. Non si tratterebbe di "Europa", ma di un club ad egemonia tedesca. Può andar bene per altri, ma personalmente non ne subisco il fascino.

Già una volta Berlino ci ha portato a "sbattere"; sarebbe di gran lunga preferibile evitare il bis, grazie.

Non resta che sperare che in questi giorni in Germania siano un po tutti sotto gli effetti di birra scadente.

Qualora così non fosse, rischiamo di scivolare verso tempi oscuri. O forse li stiamo già vivendo.

mercoledì 24 maggio 2017

Trump in Vaticano: l'incontro tra il contingente e l'eterno

Tra le varie tappe del viaggio di Trump, attendevo con molta curiosità l'incontro con Papa Francesco.

Secondo la semplificazione dei media, i due sono, attualmente, i massimi esponenti delle due principali e opposte correnti di "pensiero": Trump il nazionalista v. Francesco il mondialista.

Questo secondo i media, ripeto.

Guardando le immagini (soprattutto video), l'impressione è che l'incontro sia andato meglio di quanto la semplificazione mediatica induceva a prevedere.

Notare:

1. il body language di Papa Francesco, molto importante in queste occasioni. Piuttosto sorridente, francamente temevo un brutto broncio.

2. Papa Francesco, prima di chiudersi nello Studio con Trump, mi è parso molto attento a Melania (che è di religione cattolica, tra l'altro). Mi piace pensare che Francesco abbia intuito una cosa che troppi stentano a comprendere: ovvero che, per quanto sembri difficile crederlo dall'esterno, tramite Melania (e non solo tramite Ivanka) si può arrivare all'orecchio - e forse al cuore - di Donald.

3. Unica, ovviamente, la scenografia, e interessante il cerimoniale con le Guardie Svizzere e i Gentiluomini di Sua Santità (che quindi Papa Francesco non ha ancora abolito), ognuno incaricato di fare da "scorta" ad un ospite. Ne risulta un messaggio molto semplice e chiaro per ogni visitatore, incluso il Presidente degli Stati Uniti: i Capi di Stato di questo mondo vanno e vengono, ma ciò che la Città Eterna rappresenta, è appunto eterno.

4. Nessun Gentiluomo di Sua Santità, ovviamente, era incaricato di scortare "football", la valigetta con i codici nucleari che è sempre a portata di mano del Presidente degli Stati Uniti, e che lo seguiva anche questa volta. A trasportarla, in fondo al codazzo, come sempre, un alto graduato dell'aviazione americana. Chissà se qualcuno ha riferito a Papa Francesco di questa inquietante presenza nei Sacri Palazzi.



Guarda le foto dell'incontro su ilpost.it

lunedì 22 maggio 2017

Trump al Muro del Pianto: un'immagine che vale più di mille parole

Oggi Donald Trump è stato il primo Presidente degli Stati Uniti in carica a visitare il Muro del Pianto.

("Ma come, non ci era andato anche Obama?" "Sì, anche Obama ci era andato, ma quando era ancora un semplice senatore candidato alla Presidenza. Da Presidente, non ci è mai andato").

Quello di Trump è un gesto altamente simbolico, dalle innumerevoli implicazioni per quanto riguarda i rapporti tra Stati Uniti, Israele e tutto il Medio Oriente. Anche perché giunge il giorno dopo la visita in Arabia Saudita, custode dei luoghi più sacri dell'Islam. Insomma, un gesto che vale più di mille discorsi, nell'ambito di un viaggio architettato all'insegna del dialogo e del confronto con attori cruciali dello scacchiere - dialogo e confronto in cui, però, a "dare le carte" vogliono chiaramente essere gli Stati Uniti.

Agli odiatori di Trump di professione, che pur di trovare qualcosa a cui appigliarsi lo accusano di aver ritrattato la promessa elettorale di spostare l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme (promessa che, in realtà, è accantonata solo per il momento per non intralciare il processo di pace tra Israeliani e Palestinesi), chiedo: perchè - se era così facile - nessun Presidente degli Stati Uniti in carica, neanche Obama, ha mai fatto quello che Trump ha fatto oggi?

Segui il viaggio di Trump in Israele su Axios

domenica 21 maggio 2017

"Weiner": l'inarrestabile caduta di un ex astro nascente del Partito Democratico USA

Netflix propone "Weiner", altra opera da mettere nella lista delle cose da vedere per gli appassionati dell'attualità politica Usa.

E' un documentario sulla fallimentare campagna di Anthony Weiner durante le primarie del Partito Democratico del 2013 per la candidatura a Sindaco di New York. Per chi segue un po' le faccende dell'altra sponda dell'Atlantico (e non legge solo Repubblica), il personaggio è noto: Anthony Weiner è il marito (quasi ex) di Huma Abedin, fedelissima consigliera e vicepresidente della campagna presidenziale di Hillary Clinton. Weiner stato per sette volte membro del Congresso, un vero e proprio astro nascente del Partito Democratico. Poi è caduto in disgrazia per la sua passione per il "sexting" (lo scambio di foto e messaggini osè via Internet), ed è stato costretto a dimettersi dalla Camera dei Rappresentanti nel giugno del 2011. Dopo un paio d'anni, ha visto nella corsa per diventare Sindaco della Grande Mela come ideale occasione di riscatto. Ma è stato travolto da un nuovo scandalo (sempre per la sua passionaccia per l'invio di messaggi e foto osè a donne con cui non è sposato), e dopo una partenza sorprendente, la sua campagna è naufragata.

Il documentario è notevole, ha il suo indubbio punto di forza nell'accesso diretto ai protagonisti, e fornisce dettagli davvero interessanti sul dietro le quinte di una campagna elettorale americana, e, soprattutto, sul rapporto tra Anthony e Huma.

Alcune cose che emergono dal film:
- Weiner è un vero combattente. Il coraggio (o masochismo?) con cui ha rifiutato di ritirarsi, arrivando poi ultimo, è davvero ammirevole; 
- Huma secondo me è (o quantomeno è stata) davvero innamorata di lui - e altrettanto umiliata;
- Huma mangia un sacco di pizza d'asporto (citazione per intenditori delle teorie della cospirazione);
- notevole la scena in cui Weiner, con l'aiuto del proprio staff, cerca di seminare una delle sue "amiche di penna" virtuali che voleva fargli una "carrambata" (ovviamente con reporter al seguito) sotto la sede del suo comitato elettorale nelle ore decisive della campagna;
- perfido il montaggio finale della scena di Antony e Huma a spasso con il figlio, intervallata con le immagini della cerimonia del giuramento dell'attuale sindaco di New York, De Blasio, officiata dall'ex Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton; un esplicito richiamo ad un'altra cerimonia officiata proprio Bill Clinton, quella del matrimonio tra Anthony Weiner e Huma Abedin.

Ecco il trailer:


Perchè vale comunque la pena di vedere il film oggi:
- Anthony Weiner è finito dritto in mezzo allo scandalo email-gate di Hillary Clinton; proprio alcune e-mail girategli dalla moglie Huma convinsero l'ex direttore dell'FBI, James Comey, ad annunciare la riapertura dell'indagine su Hillary pochi giorni prima del voto delle presidenziali di novembre (Hillary ha dichiarato di essere convinta che proprio questo annuncio le costò la Casa Bianca);
- Andrew Breitbart, figura chiave dei media della "destra alternativa" Usa, giocò un ruolo fondamentale nel far scoppiare il primo scandalo che costrinse Weiner alle dimissioni dal Congresso -  quando si parla di Anthony Weiner, quindi, si parla dello scontro diretto tra la c.d. "alt-right" e il clan Clinton.

Sviluppi proprio di questi giorni (il documentario è del 2016 per cui, ovviamente, si ferma prima):
- il 19 maggio Anthony Weiner ha patteggiato l'accusa di invio di materiale osceno ad una minore, e sembra che la sua carriera pubblica sia davvero giunta alla fine;

sabato 20 maggio 2017

Cose da guardare con calma: elementi base di geopolitica

Consiglio vivamente la visione di questa lezione di Dario Fabbri, esperto di geopolitica, dal titolo "Dalla guerra fredda al nuovo disordine mondiale".

Non ne condivido tutti i giudizi su alcuni aspetti contingenti, ma fornisce un inquadramento generale dei fondamentali temi di geopolitica, indispensabili per comprendere il mondo di oggi e, in particolare, il viaggio di Trump che parte dall'Arabia Saudita.

Purtroppo su Youtube non sono riuscito a trovare la terza (e, presumo) ultima parte della lezione.




Qui un breve cv di Dario Fabbri.

Ringrazio il prof. Marco Dani per la segnalazione.

venerdì 19 maggio 2017

Il New York Times contraddice lo "scoop" del New York Times: primi appunti sulla "guerriglia" mediatica della stampa liberal contro Donald Trump

Il giorno dopo lo "scoop" sul "memo" di Comey (vedi post precedente), il New York Times ha pubblicato un articolo di Elizabeth Foley, professore di diritto costituzionale al Florida International University College of Law, che contraddice direttamente lo "scoop" e, soprattutto, le implicazioni che gli oppositori di Trump ne hanno voluto trarre.

La prof.ssa Foley, infatti, spiega in punta di diritto perchè, anche qualora la ricostruzione del New York Times fosse corretta, Trump non avrebbe commesso nulla di penalmente rilevante. Non ci sarebbe stato, quindi, alcun "intralcio alla giustizia". No impeachment, quindi.

Ma come? Come è possibile che lo stesso giornale pubblichi sulle proprie colonne, ad un giorno di distanza, due articoli di significato diametralmente opposto?

E' possibile eccome.

Almeno per tre motivi:

1. l'editoriale della prof.ssa Foley serve a ristabilire al credibilità del New York Times per il pubblico "tecnico";
2. implicitamente, l'articolo insiste, di fatto, sulla tesi che il "memo" di Comey esista;
3. sempre implicitamente, l'articolo scagiona lo stesso Comey da possibili guai per non aver denunciato a chi di dovere le "pressioni" di Trump (se non ci sono state pressioni penalmente rilevanti, Comey ha fatto bene a non denunciarle).

Poco conta che la contraddizione logica con lo "scoop" del giorno prima sia stridente. Tanto dello "scoop" (anche se non corroborato) parlano tutti, mentre dell'articolo della prof.ssa Foley, molti meno. E, soprattutto, è stato raggiunto lo scopo politico che la fonte del New York Times, probabilmente, intendeva ottenere: la nomina di uno "special counsel" per il coordinamento delle indagini sul "Russiagate".

Si tratta solo di un ennesimo episodio di "guerriglia" mediatica, in particolare di quella "guerriglia" scatenata dalla stampa liberal contro Donald Trump 

Altri esempi?

Questo articolo della Reuters in cui si afferma che sono stati rivelati altri diciotto contatti tra la campagna Trump e esponenti russi. Se ci si ferma al titolo (come molti fanno, nell'era delle notizie lette sullo smartphone), sembra roba grossa. "Annegata" nelle pieghe dell'articolo vi è però la precisazione che gli investigatori che hanno esaminato queste diciotto comunicazioni hanno concluso che non vi è traccia di "collusione" tra la campagna Trump e la Russia di Putin.

Ultimo esempio, questo: un senatore repubblicano avrebbe affermato che "Putin ha pagato Trump". A prima vista, un'altra bomba atomica. Ma, anche qui, se si legge tutto, ci si rende conto del fatto che si tratterebbe di una battuta, di una vera e propria barzelletta. Tuttavia la battuta, nei titoli, è stata divulgata come se fosse una notizia seria.

Questo è il livello della "guerriglia" mediatica tra la stampa liberal e il Presidente Trump. Occorre quindi utilizzare una doppia dose di spirito critico, se si vuole distinguere tra la "fuffa" (tantissima) e la sostanza (quasi nulla). Soprattutto, se si legge solo la stampa italiana, che quasi sempre riporta di "seconda mano" quello che la stampa liberal americana scrive.

Magari nei prossimi giorni scriverò qualcosa sulle tecniche che Donald Trump utilizza per controbattere, soprattutto con i suoi tweet (che, non a caso, tanto fastidio danno ai suoi oppositori).

Per ora mi limito a questa citazione della prof.ssa Foley (l'autrice dell'articolo di cui ho parlato in apertura), dedicata agli oppositori di Donald Trump, e che condivido parola per parola: "Crying wolf undermines the credibility of the opposition, further divides an already deeply divided country and breeds cynicism about American institutions that is as dangerous to our republic, if not more, than outside meddling".



martedì 16 maggio 2017

Cosa non torna nello "scoop" del New York Times sui memo privati di Comey

Il New York Times scrive che l'ex direttore dell'FBI avrebbe dichiarato, in un memo privato, che il Presidente Trump gli avrebbe chiesto di interrompere le indagini sull'ex Consigliere della Sicurezza Nazionale Flynn - che a gennaio fu costretto a dimettersi pochi giorni dopo la nomina.

L'autore dell'articolo dice di non aver visto questo memo, ma che gli è stato letto. E vabbè, crediamogli.

Perché Comey avrebbe scritto questo memo? A futura memoria e futuro utilizzo, per costruire una "pista di carta". E vabbè.

Ovviamente i Democratici urlano - come sempre - allo scandalo, e addirittura invocano l'impeachment. Sostengono infatti che Trump sarebbe colpevole nientepopodimeno che di intralcio alla giustizia. 

Molte cose, però, non tornano in questo "scoop" del New York Times.

Tre tra tutte.

La prima: già il 23 gennaio il Washington Post  scriveva che l'FBI aveva assodato che Flynn non aveva commesso niente di illecito. Che senso aveva per Trump esercitare "pressioni" su Comey a FEBBRAIO? L'indagine su Flynn era già sostanzialmente defunta.

La seconda: qualche giorno fa il Direttore dell'FBI facente funzioni, McCabe, ha dichiarato SOTTO GIURAMENTO che Trump non ha tentato di esercitare pressioni sulle indagini dell'FBI.

 

La terza: in sostanza, Comey si sarebbe tenuto il suo memo privato nel cassetto per mesi. Strano comportamento, per uno il cui compito non è esattamente scrivere dossier, ma fare indagini. E guarda caso, questo "memo" finisce sui giornali, grazie ad una manina "anonima", subito dopo il suo licenziamento.

A chi appartiene questa "manina"? Non lo sappiamo, il New York Times non lo dice. Si tratta, infatti, dell'ennesima storia basata su "fonti anonime".

Viene però da pensare una cosa: questo "scoop" basato su memo privati di Comey che finiscono alla stampa dà forse un senso a questo strano tweet di Trump di qualche giorno fa.



UPDATE: se si vuole analizzare la faccenda dal punto di vista tecnico-giuridico, vale la pena leggere questo blog di Matt Wilson sul sito di Mike Huckabee (noto sostenitore di Trump peraltro).

In estrema sintesi, Wilson, che è un avvocato, spiega che se l'articolo del New York Times va preso seriamente, è la condotta di Comey e della fonte del New York Times, innanzitutto, a suscitare gravi interrogativi.

Tre, infatti, sono le possibili alternative.

1. Se Comey ha percepito le pressioni di Trump come serie, avrebbe dovuto denunciare il Presidente. Si tratta di un obbligo sanzionato penalmente. Lo ha fatto?

2. Se Comey ha denunciato Trump, chi ha fatto "trapelare" alla stampa i suoi memo (dando per scontato che esistano) può aver danneggiato un'indagine in corso. Anche questo sarebbe un reato.

3. Vi è una terza alternativa: ovvero che, in realtà, Comey non considerasse quelle di Trump pressioni illegittime, tali da integrare un crimine. Insomma, vi è la possibilità che si tratti di "fuffa", di tanto rumore per nulla.

Personalmente, propendo per l'ultima ipotesi. 

Forse durante le presidenziali Usa del 2016 ci è scappato anche il morto: il misterioso caso di Seth Rich

Oggi, nel mondo alternativo di Twitter, ai primissimi posti tra gli argomenti più discussi troviamo #SethRich.

E' un nome che dice poco a chi non ha una vera e propria fissazione per la politica Usa.

Seth Rich era un giovane di 27 anni, dipendente del Partito democratico USA, ucciso a colpi d'arma da fuoco il 10 luglio 2016 durante una misteriosa aggressione vicino a casa, a Washington DC.

La polizia disse che forse si era trattato di un tentativo di rapina finito male. Fino ad oggi, per questo omicidio nessuno è stato assicurato alla giustizia.

Hillary Clinton, allora candidata alla Casa Bianca proprio per il Partito democratico, citò Seth Rich durante un comizio, "buttandola" peraltro in politica, ovvero dicendo che con norme più restrittive sulla vendita delle armi forse la morte di Seth Rich si sarebbe potuta evitare.

Guardate questo video e andate al minuto 8:45


Oggi, però, arriva un clamoroso colpo di scena.

L'investigatore privato assunto dalla sua famiglia afferma che Seth Rich, poco prima di morire, era in contatto con Wikileaks. Sì, proprio con l'organizzazione di Julian Assange che durante i momenti decisivi della campagna elettorale ha divulgato grande quantità di materiale compromettente per Hillary Clinton.

Ecco il servizio di Fox 5: guardatelo e fatevi un'idea.




La tesi che i Democratici, con l'aiuto dei media "seri", hanno tentato di propalare fino ad oggi è che Wikileaks abbia ottenuto il materiale anti Clinton dai famosi hacker russi, che agirono su ordine di Putin, che, ovviamente, era in combutta con Trump. Peccato, però, che fino ad ora, di tutto ciò non sia saltato fuori uno straccio di prova.

E se non si fosse trattato di hackeraggio? Se si fosse trattato, invece, di "leaks" - ovvero se il materiale fosse stato consegnato a Wikileaks da qualcuno che lavorava all'interno del campo democratico?

Ovviamente i cultori delle cospirazioni oggi imperversano su Twitter, e sono già giunti alle loro conclusioni.

Noi, invece, aspettiamo i prossimi sviluppi.

domenica 14 maggio 2017

Roger Stone, il "principe delle tenebre" che ha aiutato Trump a conquistare la Casa Bianca

Se avete Netflix, se vi piace la politica americana, se non leggete solo Repubblica e se vi interessa capire come Trump è diventato presidente, guardate "Get me Roger Stone".

È il documentario dedicato a uno dei più spregiudicati consulenti politici vicini al Partito repubblicano, che ha avuto un ruolo chiave nella campagna di Donald Trump. 

Appena diciannovenne, Roger Stone finì nel tritacarne dello scandalo Watergate, che costò la presidenza a Nixon. Dopo le dimissioni del 37mo Presidente degli Stati Uniti, ne rimase un fan e ne divenne amico. Fece carriera nel Partito repubblicano, ebbe un ruolo importante nella campagna vittoriosa di Reagan, e poi divenne un potentissimo lobbista, facendo un bel po' di soldi. Nel 1996 fu travolto da uno scandalo a luci rosse ed emarginato. Rientrò "in pista" quando fu incaricato di condurre "sul campo" per George W. Bush la battaglia contro il riconteggio in Florida durante le presidenziali del 2000. Per intenderci, fu lui ad organizzare i manifestanti pro Bush che fronteggiavano i sostenitori di Al Gore all'esterno (ma anche all'interno) del palazzo dove si svolgeva (o meglio, dove avrebbe dovuto svolgersi) il riconteggio manuale delle schede.

Nacque così il "personaggio Roger Stone" di oggi. Non più un "insider", ma un controverso attivista anti-establishment, un dandy culturista e libertario, autore di libri in cui si sostengono le più scatenate teorie cospirazioniste sull'omicidio Kennedy, sul Watergate, su Bill Clinton. Il Roger Stone consulente politico, invece, opera "dietro le quinte".

Ammiratori e detrattori lo considerano un maestro dei "trucchi sporchi" e della c.d. "oppo research" (la raccolta di materiale compromettente su un avversario politico, magari da far trapelare abilmente alla stampa). Uno dei suoi soprannomi preferiti è "principe delle tenebre", anche se sostiene di non aver mai fatto nulla di illegale.

Ebbene, Roger Stone è da lungo tempo consigliere politico di Donald Trump. Anzi, in sostanza afferma di essere stato il primo (a parte Donald Trump stesso, ovviamente) ad aver "visto", molti anni fa, che Trump avrebbe potuto conquistare la Casa Bianca. 

Attenzione però: il documentario è tutt'altro che apologetico ed anzi è a tratti ostile, ma il tutto è da prendere cum grano salis perché Stone è abilissimo nell'autopromozione, e non si cura molto del fatto che si parli male di lui, anche al di là dei suoi "meriti" o "demeriti". Non a caso, uno dei suoi motti - una delle c.d. "Stone rules" - è: "It is better to be infamous than to never be famous at all".



giovedì 11 maggio 2017

Anche se non sembra, a Verona si vota tra un mese

E quindi, visto che il tempo stringe, cosa ci ha detto il dibattito di stasera su Telearena tra i quattro candidati principali?

Federico Sboarina è chiaramente il frontrunner. Da qui al primo turno gli basta non commettere passi falsi, evitare gli sgambetti e sperare che Salemi e Bisinella litighino il più possibile come stasera, annullandosi tra di loro. Apripista.

Patrizia Bisinella è deliziosa, sicuramente si è preparata, ma non riesce ad eliminare l'impressione di giocare in trasferta. Eterea.

Orietta Salemi deve portarsi qualcuno dietro le quinte che le mostri un enorme cartello con sopra scritto: "sorridi". Altrimenti perde ogni efficacia. Contratta.

Alessandro Gennari funziona molto bene in TV. Ma non si cura abbastanza del sentire profondo della città. D'altronde è del Movimento Cinque Stelle. Troppo ortodosso.


 

mercoledì 10 maggio 2017

Licenziare il Direttore dell'FBI: un atto alla Clinton (Bill)

Appresa la notizia del licenziamento del Direttore dell'FBI, i Democratici hanno iniziato subito a far circolare il parallelo con il "Saturday Night Massacre", ovvero il licenziamento di procuratore speciale, procuratore generale e vice procuratore generale da parte di Nixon durante lo scandalo Watergate.

Ma si tratta di un parallelo senza senso.

Innanzitutto, perché Nixon non licenziò mai il Direttore dell'FBI. Inoltre, Trump personalmente, a differenza di Nixon - e diversamente da quanto vogliono far intendere i Democratici e i loro amichetti giornalisti faziosi - non è sotto indagine.

In effetti, degli undici direttori dell'FBI che si sono succeduti nel tempo - se escludiamo i facenti funzione - solo due sono stati licenziati. Oltre a James Comey, in questa lista cortissima va inserito William Sessions, che ricevette il benservito da... Bill Clinton. Sì, proprio il marito di Hillary!

Come nota il Washington Post  la motivazione addotta per il licenziamento di Comey è il modo in cui ha gestito l'indagine sulla moglie... dell'unico altro Presidente che ha licenziato un Direttore dell'FBI. 

Insomma, il parallelo Trump-Nixon, ancora una volta, non regge. Semmai, il licenziamento di Comey è un atto di "stile clintoniano".

 



martedì 9 maggio 2017

Era una serata un po' moscia... e poi Trump ha licenziato il Direttore dell'FBI

ED ERA ORA, aggiungo io.

La motivazione del licenziamento l'ha scritta un vice procuratore generale, ma è trumpismo a 24 carati: a James Comey viene addebitato il modo in cui ha gestito (male, malissimo) le indagini sul c.d "e-mail-gate" in cui è coinvolta Hillary Clinton. Ricorderete: Hillary è accusata di aver scambiato informazioni top secret utilizzando un indirizzo di posta elettronica privata e non governativo. E poi, una volta iniziate le indagini, di aver tentato di occultare il misfatto.

In effetti, Comey (che tra l'altro è un repubblicano) ha fatto incazzare tutti. Prima quando, a luglio 2016, ha annunciato che non c'era materia per processare Hillary (suscitando le ire dei repubblicani); poi quando, poche settimane prima del voto, ha dichiarato che l'indagine era stata riaperta (facendo infuriare i democratici). Tra l'altro la Clinton ha recentemente dichiarato che, a suo parere, è stato proprio questo ultimo atto di Comey a farle perdere le elezioni (e non gli hacker russi).

Divulgata da poche ore la notizia, i due schieramenti si stanno già dando battaglia.

I democratici si stracciano le vesti scandalizzati, sostengono che Trump sostituisce Comey perché stava investigando sui suoi rapporti con Putin. Ma questa è la versione a cui possono credere solo quelli che sono ancora convinti che Obama meritasse il Nobel per la Pace. L'indagine sul c.d. "Russia-gate" si trascina stancamente, dopo mesi di chiacchiere non è saltato fuori nulla di concreto (molto probabilmente perché non c'è nulla) e ormai andrebbe più correttamente battezzata "fuffa-gate".

I trumpisti più convinti, invece, esultano. Sperano, infatti, che la mossa indichi che Trump intende mantenere una delle sue promesse elettorali, tra l'altro fatta in mondovisione: quella di mettere sotto inchiesta Hillary Clinton proprio per l'"e-mail gate".

È il caso di rievocare il momento in cui ha fatto quella promessa, uno dei passaggi topici della campagna presidenziale 2016:




Di sicuro si prospettano tempi scoppiettanti.

Intanto, per chi vuole documentarsi, pubblico di seguito la lettera di licenziamento di Comey e le raccomandazioni del Procuratore Generale e del suo vice.

 

 

 
 
 
 

domenica 7 maggio 2017

La vittoria di Macron non basta per far dormire sonni tranquilli a Bruxelles

Con la vittoria di Macron, Bruxelles può tirare un bel sospiro di sollievo; ma ha ben poco da festeggiare.
Il quadro politico della Francia, fondamentale Stato fondatore dell'Unione Europea, è in evoluzione ed è ancora presto per decifrarlo.
Le forze dell'establishment politico sono in crisi.
Il partito socialista del Presidente uscente Holland - che non si è ricandidato vista la propria travolgente impopolarità - ha le ossa rotte, anzi, frantumate.
Non se la passa meglio il partito gollista, il cui candidato, Fillon, non è arrivato al ballottaggio perchè "azzoppato" per via giudiziaria. 
Emmanuel Macron è stato fenomenale nel cogliere l'opportunità e ha vinto; ma manca di fascino, deve dimostrare di essere un leader, e deve costruire un partito da zero.
Il Front National, dal canto suo, ha aumentato di molto i propri voti, sia in senso assoluto (al primo turno), sia in senso relativo (al ballottaggio). Marine Le Pen promette di cambiare pelle al proprio movimento, in autunno, per mandarne definitivamente in soffitta i tratti più "impresentabili", stringere alleanze, infrangere il "fronte repubblicano" e tentare davvero, la prossima volta, di vincere.
Nel frattempo, a giugno ci sono le elezioni legislative. Saranno quelle elezioni a indicare veramente quale direzione intende prendere la Francia.


sabato 6 maggio 2017

"Macron leaks": anche le presidenziali francesi hanno i loro hacker

Colpo di scena nelle ultime ore prima del voto delle presidenziali francesi: anche la campagna elettorale di Macron è rimasta vittima di un hackeraggio informatico.

Qui trovate un servizio piuttosto dettagliato della Reuters.

Attenzione: le similitudini con quanto avvenuto durante le presidenziali USA sono solo parziali.

Innanzitutto, Wikileaks non c'entra, o perlomeno, non c'entra direttamente. Nel senso che le informazioni non sono state divulgate dalla piattaforma gestita da Assange, ma sono state pubblicate su un altro sito che consente la condivisione anonima di files. La differenza non è secondaria, perché Wikileaks si fa vanto di condurre verifiche sull'autenticità delle informazioni, prima di pubblicarle.

La cosa singolare è che Wikileaks si sta dando un bel da fare per verificare, ora, se i #Macronleaks - questo è l'hashtag che gira sui social - contengono notizie false. Quale è l'interesse di Assange nell'investire tempo e risorse per verificare notizie divulgate da altri? Chissà.

La Commissione di controllo della campagna elettorale ha reagito in modo truce, sostanzialmente diffidando i media "seri" dal divulgare i "Macron leaks" senza prima aver verificato la veridicità delle notizie (cosa ovviamente impossibile da fare in poche ore).

Molti si chiedono se questo ennesimo attacco hacker è in grado di influenzare l'esito del voto. Assange, che di queste cose se ne intende, da Twitter si mostra  scettico: ritiene che sia troppo tardi, è iniziato il silenzio elettorale e gli elettori hanno già maturato le proprio decisioni.

Ma allora, quale è l'obiettivo degli hacker? 

Per chi si fa questa domanda, il "sondaggio" lanciato da Wikileaks sul proprio profilo Twitter contiene delle opzioni interessanti: come si dice in inglese, "food for thought".


Letture - L'errore di calcolo di Bin Laden

L'articolo " Bin Laden’s Catastrophic Success " di Nelly Lahoud, pubblicato su Foreign Affairs nel settembre/ottobre 2021 , c...