domenica 6 ottobre 2019

“Deep State” e Russia: lo “Stato permanente” conta anche in Italia e Berlusconi lo ha capito

(Comparso su Atlantico Quotidiano del 19 aprile 2018)
La presidenza Trump ha portato alla ribalta due temi, che sono troppo spesso affrontati in maniera così dozzinale e sensazionalistica da renderli, in realtà, irrilevanti, ma che, se analizzati seriamente, non possono essere ignorati, a Washington così come da noi.
Il primo tema è quello del cosiddetto “Deep State”, o “Stato profondo”. Secondo gli appassionati di complotti (soprattutto quelli che hanno simpatie di destra), il “Deep State” è costituito da un gruppo di persone inserite nei gangli strategici dell’alta burocrazia, dell’intelligence, delle forze armate, i quali perseguono un ben preciso indirizzo politico, soprattutto in tema di sicurezza nazionale, indipendente dalle contingenze determinate dai risultati elettorali. Secondo i sostenitori delle più ardite teorie cospirative, per perseguire i propri scopi, i membri del “Deep State” non si farebbero scrupolo di utilizzare metodi illegali e anche estremi, quali il ricorso, all’occorrenza, a scandali pilotati, all’assassinio politico, a tentativi di colpi di stato. Chiaramente, la tematica, così affrontata, è degna di trovare spazio solo sui tabloid scandalistici, o al massimo, in serie televisive thriller come quella, omonima, approdata in queste settimane anche in Italia. Si tratta, però, del deterioramento ad uso scandalistico di un tema importante, negli Stati Uniti e non solo.
È quasi banale, infatti, affermare che in un sistema istituzionale articolato e complesso come quello statunitense, esiste in effetti un apparato che può essere identificato quale “Stato permanente”. Esso è certamente costituito dagli esponenti di quell’alta burocrazia federale, i cui incarichi non sono legati allo spoil system; ciò consente a questi alti burocrati di perseguire un proprio indirizzo politico, per così dire, appunto, “stabile”, che, tende, di per sé, quasi inevitabilmente, a diventare difficilmente permeabile, e refrattario al controllo dei vertici di nomina politica. È per questo motivo che il termine “Deep State” è dibattuto, “seriamente”, anche nell’ambito della scienza politica, per individuare quegli influenti centri decisionali nell’ambito della pubblica amministrazione che sono relativamente permanenti, e le cui linee politiche ed i cui programmi di lungo periodo, soprattutto in materia di sicurezza nazionale, sono difficilmente influenzabili dal succedersi dei vari governi democraticamente eletti. Un problema presente in tutte le democrazie.
Il secondo tema è quello della cosiddetta “Russia Collusion”. I rapporti tra Stati Uniti e Russia sono così tesi – o, almeno, parte della schieramento politico vuole che siano così tesi – che per un funzionario statunitense anche solo avere contatti, nell’esercizio delle proprie funzioni, con l’ambasciatore russo può essere motivo sufficiente per essere pubblicamente additato come traditore (come dimostra la vicenda di Michael Flynn, costretto a dimettersi pochi giorni dopo essere entrato in carica come consigliere della sicurezza nazionale di Trump). I Democratici si sono aggrappati al tema dell’influenza di Putin sulla corsa alla Casa Bianca, e, di conseguenza, alle indagini del procuratore speciale Mueller – che dopo mesi non è ancora riuscito a cavare un ragno dal buco – per due principali motivi: in primo luogo, perché non sono ancora riusciti a metabolizzare l’inaspettata sconfitta alle presidenziali del 2016, e non hanno ancora escogitato nulla di meglio; in secondo luogo, perché sanno che è un tema che può mettere in difficoltà Trump anche nei rapporti con quello che, in teoria (molto in teoria), è il suo partito, ovvero il Partito Repubblicano, o almeno con quella parte del Partito Repubblicano che ha una linea molto rigida nei confronti della Russia.
Quello della “Russia collusion” è quindi un altro argomento spesso strumentalizzato ed utilizzato in modo propagandistico, come arma utile solo per danneggiare l’immagine dell’avversario politico. Ciò non vuol dire, però, che il tema dei tentativi della Russia di influenzare la politica americana debba essere trascurato. I resoconti di stampa ed i rapporti di intelligence sull’utilizzo di attacchi hacker, fake news e altri strumenti di propaganda legati – direttamente o indirettamente – a Mosca sono troppi per essere ignorati. Semmai restano dubbi sul fatto che abbiano avuto reale efficacia nell’influenzare le decisioni dell’elettorato americano. Anche se è più plausibile che la Russia avesse, come obiettivo, non tanto quello di favorire uno specifico candidato (Trump piuttosto che Clinton), quanto quello di creare confusione e divisione, mettendo in difficoltà gli Stati Uniti sul piano interno. Ed il livello di tensione tra il presidente in carica e i suoi oppositori induce a pensare che questo obiettivo la Russia l’abbia raggiunto, eccome.
Dopo aver cercato, quindi, di dare un contenuto “serio” al tema del “Deep State” e della “Russia Collusion”, possiamo chiederci se si tratta di categorie interpretative utili anche per analizzare i fatti di casa nostra. La risposta è sicuramente affermativa, come dimostra l’evoluzione repentina assunta, negli ultimi giorni, dalle consultazioni per la formazione del nuovo governo.
Se volessimo tentare di dare un contenuto – serio – all’indirizzo politico del “Deep State” italiano, senza fare eccessivo uso di fantasia possiamo elencare tre sigle che individuano le tre “stelle polari” della politica estera e di sicurezza italiana: NATO, ONU, UE. Ormai sappiamo che durante la Guerra Fredda, la tutela di queste coordinate di azione – soprattutto la prima – poggiava anche su apparati clandestini, che avrebbero dovuto attivarsi qualora la minaccia sovietica si fosse resa attuale. Durante la cosiddetta Seconda Repubblica, il carattere cogente di queste linee di azione (che sono parte integrante di quello che possiamo definire come “indirizzo politico costituzionale”, il cui supremo guardiano alloggia al Quirinale) è emerso durante le varie crisi politiche che si sono succedute durante il lungo “regno” dell’undicesimo presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E gli avvenimenti di queste ore dimostrano che, sotto questo profilo, il presidente Mattarella, giustamente, non intende discostarsi di un millimetro dall’operato del suo predecessore.
Per quanto riguarda il tema della “Russia Collusion”, invece, occorre rilevare che, in Italia, il livello di sensibilità è sicuramente inferiore rispetto agli Stati Uniti. Del resto, qui da noi, sul tema dei finanziamenti stranieri alla politica nessuno può vantare un’autentica verginità. Tutti ricorderanno le clamorose esternazioni di Cossiga sui rubli che da Mosca finivano nelle casse del PCI, e sui dollari con cui la CIA finanziava la DC. Forse a causa di questa totale mancanza di innocenza della Repubblica italiana, le notizie di stampa sui legami con la Russia di Putin della Lega, capitanata da Salvini, alla disperata caccia di finanziamenti, non hanno generato particolare scandalo. Negli Stati Uniti, un politico che si facesse fotografare con una maglietta raffigurante l’effigie di Putin sulla Piazza Rossa non potrebbe concretamente aspirare alla Casa Bianca. In Italia invece, è stato fino all’altro giorno regolarmente in corsa per diventare premier.
Ma a tutto c’è un limite. La linea scompostamente filoputiniana e filoassadiana espressa da Salvini nelle ore che hanno seguito l’attacco di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna al programma di armi chimiche di Assad ha fatto retrocedere la Lega di molte posizioni nella corsa per la formazione del nuovo governo. Delle due l’una: o si è trattato di una vera e propria topica in un momento delicato, oppure Salvini aveva già capito che Mattarella aveva già optato per un incarico istituzionale, e ha deciso di curare gli umori della propria base. Solo un po’ più sfumata – contraria all’attacco ma filo-Nato – è stata la posizione espressa da Fratelli d’Italia, partito che anche in questo frangente si è accontentato
di un ruolo solo ancillare.
Non è una sorpresa, quindi, che il presidente Mattarella abbia deciso di affidare un incarico esplorativo a Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, ma anche e soprattutto esponente di Forza Italia fedelissima e di lungo corso. Berlusconi, nel week end di guerra-lampo appena trascorso, si è palesato, rispetto a Salvini, quale interprete più affidabile di quelle che sono le coordinate di azione dello “Stato permanente” italiano. D’altronde, l’opera dello “Stato permanente” Berlusconi l’ha provata sulla propria pelle, nel novembre 2011; e dimostra di aver imparato la lezione.

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