(Comparso su Atlantico Quotidiano del 31 gennaio 2018)
Ieri a Washington si è celebrato uno dei principali riti collettivi della politica americana: il Presidente Trump ha pronunciato, davanti al Congresso riunito in seduta comune, il suo primo Discorso sullo Stato dell’Unione.
Si è trattato, come sempre, di un evento in cui la coreografia, la retorica e il body language hanno fatto la parte del leone, offrendo così, agli spettatori, la summa dell’immagine che, nella fase attuale, la politica Usa intende proiettare di sé.
Trump è stato accolto in maniera estremamente calorosa dalla parte repubblicana dell’aula, che ha fatto di tutto per eclissare l’accoglienza glaciale riservatagli dagli esponenti del Partito Democratico.
In meno di un minuto il Presidente ha strappato la sua prima standing ovation; ne ha ricevute molte, in effetti, durante il discorso durato più di un’ora. Si è trattato di acclamazioni bipartisan, quando ha elogiato le gesta di militari e operatori dei servizi di emergenza, invitati quali ospiti d’onore e indicati come esempi di eroismo ed abnegazione. O quando si è trattato di salutare Steve Scalise, membro della Camera dei Rappresentanti – molto vicino politicamente a Trump – miracolosamente sopravvissuto, l’anno scorso, ad un attentato di matrice politica.
Gli applausi, invece, sono stati quasi sempre della sola parte repubblicana quando Trump ha rivendicato i risultati della propria Amministrazione, citando i dati sull’occupazione, l’andamento dell’economia, il taglio delle tasse, gli interventi correttivi sulla riforma sanitaria di Obama. È stato così anche nella parte centrale del discorso, dedicata ai temi di politica interna, che ha preso le mosse da temi generali – quali il richiamo all’afflato religioso che ispira la democrazia americana, l’elogio delle Forze Armate e della bandiera, le nomine di “bravi” giudici federali. Qui Trump non è andato a caccia di consensi tra i Democratici, anzi, ha proseguito di gran carriera toccando temi a loro invisi, quali la difesa del Secondo emendamento, la tutela della libertà religiosa, la drastica diminuzione della regolazione pubblica; solo poi si è dedicato ad argomenti su cui è possibile trovare qualche punto di incontro bipartisan, quali la reindustrializzazione degli Usa, la riduzione dei costi dei farmaci da prescrizione, la rinegoziazione dei trattati commerciali, il gigantesco piano delle infrastrutture, ma anche la formazione professionale, i congedi parentali, la reintroduzione degli ex carcerati nel mondo del lavoro. Ma non ci si deve sbagliare, Trump non è interessato a “inciuci” con l’opposizione: la parte del discorso dedicata ai temi interni si è chiusa, infatti, con ampio spazio per i “cavalli di battaglia” della piattaforma trumpista in materia di immigrazione, come la costruzione del muro al confine con il Messico (indissolubilmente legato al piano per risolvere il problema dei “Dreamers”), e nel campo della lotta al traffico di droga.
L’ultima parte, infine, è stata dedicata alla politica estera, e qui Trump ha confermato la linea intrapresa volta allo smantellamento della balbettante politica estera obamiana, partendo dal rafforzamento e ammodernamento della capacità militare Usa, in linea con il motto reaganiano “peace through strength”; per poi passare alla rivendicazione dei risultati ottenuti, in poco più di un anno, nella guerra contro l’ISIS; alla riapertura senza riserve di Guantanamo quale carcere per i terroristi; alla riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele; al rafforzamento del principio di condizionalità nell’erogazione di contributi economici agli Stati esteri e alle organizzazioni internazionali, che non possono andare a beneficio dei nemici degli Usa; alla conferma della drastica inversione di rotta nella politica nei confronti di Cuba, Iran e Corea del Nord.
In tutto questo, si sono susseguiti vari momenti d’impatto mediatico, accuratamente studiati: l’omaggio ai genitori di due ragazze uccise dai membri di una banda criminale composta prevalentemente da immigrati; ai genitori di Otto Warmbier, studente americano morto pochi giorni dopo essere stato liberato da un’assurda e feroce prigionia in Nord Corea; ad un esule nordcoreano che ha sollevato la sua vecchia gruccia (ora cammina grazie a protesi artificiali made in Usa) come emblema della sua lotta per la libertà. Infine, il coro “Usa-Usa”, quando Trump ha celebrato il Campidoglio di Washington come monumento al principio di autogoverno su cui si fondano le istituzioni americane, sottolineando che esse sono al servizio del popolo americano, e non il contrario (sì, chiamatelo, se volete, populismo).
In tutto ciò, i Democratici hanno cercato, come detto, di proiettare un’immagine di ferma distanza e contrapposizione, limitandosi a “fare presenza” e ad unirsi al Presidente solo negli omaggi a militari e first responders. Alcuni intellettuali “indipendenti”, dal canto loro, nei primi commenti, hanno sottolineato che si è trattato di un discorso “divisivo”. Analisi che lascia il tempo che trova, perché il problema è che, nella politica americana, ad essere “divisivi” sono soprattutto i temi.
Ma il pubblico americano cosa ne pensa? Per quello che valgono, i primi sondaggi fatti dai più grandi network televisivi (CBS e CNN) hanno riferito di un’approvazione a larghissima maggioranza del discorso da parte dell’elettorato repubblicano, e di un grande apprezzamento anche da parte degli elettori indipendenti. E – sorpresa sorpresa… – anche quasi la metà degli elettori registrati come democratici ha espresso giudizio positivo. Se si tratta di rilevazioni accurate, Trump, con il discorso di ieri sera, ha segnato un importante punto a proprio favore.
È indicativo, del resto, che i Democratici abbiano affidato la “replica” a Joseph “Joe” Kennedy III – pronipote di JFK – che, se non fosse per l’augusto cognome, sarebbe da considerare a tutti gli effetti un “peso piuma” del partito. Il problema è che, quando il “Russia gate” passa in secondo piano nell’agenda mediatica, emerge la scomoda, tragica verità: il Partito Democratico è ancora in stato di shock per la sconfitta alle presidenziali del 2016, e dalle macerie lasciate dal binomio Obama-Clinton deve ancora emergere un barlume di leadership vincente. È per questo che, in mancanza, viene dato spazio alle posizioni più estremiste (come quelle che hanno portato all’autolesionistico – per i Democratici – shutdown del governo federale, durato lo spazio di un weekend), o a idee velleitarie che esistono solo nell’immaginario di Hollywood e del jet set newyorkese (come “Oprah for President”), o, come detto, ai “pesi piuma”, nella convinzione che questi ultimi, in realtà, più di tanto non possano fare, se non vivere di luce riflessa.
Insomma, se l’Unione federale è forte, come ha detto (a ragione) Trump durante il suo discorso, il solco che divide la “palude” politica di Washington è profondo, ed è proprio il Presidente a scavarlo con convinzione. Vedremo come ciò si tradurrà nella corsa, già iniziata, verso le elezioni di medio termine di novembre. Mentre i Democratici in cerca di idee hanno la tendenza ad arroccarsi nell’estremismo, Trump procede come uno schiacciasassi, dimostrandosi capace di catalizzare il partito repubblicano, e di conquistare, all’occorrenza, anche molti indipendenti.
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