In fondo a questo post copio e incollo un articolo comparso su "Il Corriere di Verona" di oggi, che si scaglia contro una convenzione stipulata tra l'USL 16 di Padova e il "Movimento per la Vita". Tale convenzione consente ai militanti di tale Movimento di tenere uno sportello presso l'Ospedale di Piove di Sacco e - sommo scandalo per l'Autrice dell'articolo! - di far circolare i suoi militanti "liberamente nelle corsie per convincere la donna incinta a rinunciare all'aborto".
Articolo a dir poco incredibile, soprattutto nei toni. Per questo consiglio di leggerlo prima di proseguire nella lettura di questo post, così risulterà più chiaro ciò che intendo dire.
Ricordo all'Autrice che secondo la nostra legge (194/78) l'aborto non è strumento per rimediare a problemi di carattere economico o per porre in essere pratiche eugenetiche, ma che: " (Art. 4) la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia".
Quindi la ratio della legge è proteggere la salute fisica o psichica della donna, che può essere certamente determinata da condizioni economiche o da previsioni di anomalie o malformazioni del concepito; ma da qui a dire che le motivazioni dell'aborto sono - sic et simpliciter, come pare fare, con levità, l'Autrice - economiche o eugenetiche, ce ne passa. Anzi, devo dire che l'idea dell'aborto prefigurato - sic et simpliciter - come pratica eugenetica fa a dir poco rabbrividire.
E inoltre, e soprattutto, sempre secondo la legge: "(art. 5) Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto".
Pertanto, in base a quanto è sinteticamente riportato nell'articolo, la convenzione tra il "Movimento per la vita" e l'USL 16 di Padova appare in linea al dettato della legge. Non vi è dunque alcuna "libertà negata", come sostiene l'Autrice, ma l'applicazione di quanto previsto dal nostro ordinamento. Fermo restando che il giudizio definitivo deve essere differito alla prova dei fatti, ovvero alla verifica di come, in concreto, questa convenzione funzionerà e se davvero le modalità pratiche di sua applicazione saranno conformi a quanto previsto dalla normativa.
Ma il punto è un altro.
Il punto è che l'Autrice dell'articolo vorrebbe - sbagliando - che le donne fossero lasciate sempre da sole di fronte alla prospettiva di una decisione così drammatica, quale è quella di abortire. Ma, come si è visto, non è ciò che stabilisce la legge. Anzi, a voler "emergere allo scoperto, infischiandosene di leggi" - per usare la terminologia dell'articolo - pare essere proprio l'Autrice.
* * *
Ecco l'articolo comparso oggi 25/8/2013 su "Il Corriere di Verona", in prima pagina.
IL CASO DELL'USL PADOVANA - ANTIABORTISTI LIBERTA' NEGATA
di GABRIELLA IMPERATORI
L'anima bianca del Nordest, che ha alle spalle secoli di etica controriformistica, austro-ungarica, democristiana, curiale, tenta ancora una volta di emergere allo scoperto, infischiandosene di leggi, problemi sanitari, economia, psicologici, ma preoccupata più che altro di non dispiacere alle direttive della Chiesa. Si tratta stavolta della convenzione quinquennale stipulata fra l'Usl 16 di Padova e l'ospedale di Piove di Sacco: il «contratto» consente ai volontari del «Movimento per la vita» non solo di disporre di uno sportello ove con la donna che intende abortire si possa prima tentare un consulto, ma addirittura di circolare liberamente nelle corsie per convincere la donna incinta a rinunciare all'aborto. Ho detto che si tratta di un tentativo, perché la notizia ha già scatenato una bufera di polemiche. Ma come? Non basta una legge che ha quasi mezzo secolo, ribadita da referendum popolare, e che ha non solo evi tato le operazioni cruente e talvolta mortali dell'aborto clandestino, ma ha sensibilmente ridotto il numero delle interruzioni di gravidanza? Non basta il numero spropositato di obiettori, pari nel Veneto all'8o per cento circa fra personale medico e paramedico, non sempre per motivazioni morali ma anche cameristìche, che costringe le donne che scelgono di abortire ad attese, sofferenze, dubbi laceranti, insomma ad allungare i tempi di quello che per tutte è un dramma dolorosissimo? Non basta che perfino la pillola del giorno dopo (che non è abortiva) sia mal vista e crei difficoltà a chi vuole ottenerla? Non basta che la libertà di scelta della donna, garantita dalla legge 194, venga di continuo osteggiata? Non si tratta qui di riaprire il dibattito su una pratica certo discutibile, che si deve cercar di ridurre il più possibile. Le cause dell'aborto, come ognuno sa, sono molteplici e articolate: vanno da motivazioni economiche, eugenetiche, psicologiche, di età, ricondudbili comun que sempre al fatto che se una donna non se la sente di diventare madre possa rinunciarvi, senza per questo essere colpevolizzata come un'assassina. Lo scopo è che un bambino, che non ha chiesto di nascere, sia davvero benvenuto da chi gli darà la vita, non sia un errore o un inciampo. Naturalmente i volontari del movimento assicurano di agire con sensibilità, limitandosi a offrire la possibilità di alternative (a cui le donne hanno certamente già pensato), di fatto però creando confusione e angoscia in persone già provate. E, inoltre, ricordando che per un periodo (18 mesi) la donna che terrà il figlio sarà aiutata economicamente a comperare latte, pannolini, abitini e quanraltro. Ma dopo? C'è un contratto che assicura denaro, cure, vicinanza psicologica per qualche lustro o decennio? E' poi giusto proporre, come talvolta si fa, di portare avanti in ogni caso la gravidanza per magari abbandonare, il neonato all'adozione? È importante solo la vita o anche, per neona ti (come per malati o disperati) la sua qualità e il diritto di viveria con dignità? Su questo ed altro occorre rispettare la coscienza della donna, e m subordine del suo compagno, se ce l'ha. E in ogni caso nella piena osservanza della legge statuale. Altrimenti si può arrivare a forme di violenza psicologica, deleteria m particolare per le persone più deboli".
domenica 25 agosto 2013
La non secondaria differenza tra ciò che i militanti abortisti desiderano e ciò che la legge dice
domenica 5 maggio 2013
Ius soli: come funziona negli altri Stati?
Il governo Letta si è dato un orizzonte di 18 mesi per operare un cambiamento nella politica italiana, ma se continua così rischia di non durare (altri) 18 giorni.
Prima abbiamo dovuto assistere alla maldestra vicenda del cambio di deleghe al neo-sottosegretario Biancofiore. Per chi conosce il personaggio, l'originaria delega alle pari opportunità era in effetti apparsa la classica battuta da social network, ed il repentino mutamento con quella alla pubblica amministrazione ha dato la sgradevole impressione che, in fondo, una delega valeva l'altra, purchè fosse concesso l'agognato strapuntino.
La "vendetta" del Cavaliere per il trattamento riservato ad una delle sue fedelissime non si è fatta però attendere, ed ha assunto i tratti di un rilancio sulla questione Imu: o abolizione, o niente fiducia, dice l'aspirante padre costituente.
Ma non è finita qui. Nel frattempo, il ministro per l'integrazione, Cécile Kyenge, interpretando a suo modo la richiesta di "silenzio stampa" del premier Enrico Letta (ma è difficile criticarla sotto questo aspetto, visto che molti altri neo-ministri, prima di lei, avevano sostanzialmente ignorato tale richiesta), ha sganciato una "bomba" nell'arena politica. Kyenge ha dichiarato in tv che nelle prossime settimane sarà pronto un ddl per introdurre il riconoscimento della cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri, il cosiddetto "ius soli", modificando così l'attuale normativa, che è invece incardinata sul concetto di "ius sanguinis", secondo cui è cittadino italiano per nascita chi, in sostanza, ha almeno un genitore italiano.
Le reazioni degli "alleati" del Pdl non si sono fatte attendere ed esprimono tutte le sfumature del concetto di contrarietà: si va dalla contrarietà di metodo ("non è nel programma", secondo il portavoce vicario del Pdl Anna Maria Bernini), alla contrarietà di merito "no perchè no" ("è un errore", sentenzia Maurizio Gasparri con l'usuale capacità di analisi che lo contraddistingue).
Insomma, su questo argomento ne sentiremo delle belle, anche perchè a favore dello "ius soli" sono giunti moniti anche dal Colle più alto. Pertanto, vale la pena cominciare a riflettere sull'argomento, dando innanzitutto un'occhiata a come si regolano gli altri Stati.
Una breve sintesi comparata della normativa in materia di cittadinanza si può intanto trovare su questo sito del Comune di Bologna, nonchè su questo articolo del Giornale di un paio di anni fa, che sottolinea come "lo ius sanguinis tutela i diritti dei discendenti degli emigrati, ed è dunque spesso adottato dai paesi interessati da una forte emigrazione, anche storica (Armenia, Irlanda, Italia, Israele), o da ridelimitazioni dei confini (Bulgaria, Croazia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Serbia, Turchia, Ucraina, Ungheria)".
UPDATE: Diamo un po' di numeri, che aiutano a capire meglio.
Secondo Flavia Amabile de "La Stampa" (ripresa da Dagospia.it), "Il 61,4% dei minori stranieri è nato in Italia. I nati con entrambi i genitori stranieri residenti sono stati 77.109 nel 2010 e rappresentano il 13,7% del totale delle nascite in Italia nell'anno. Più in generale risultano circa 573 mila residenti di cittadinanza straniera nati in Italia, pari a circa il 13,5% del totale degli stranieri residenti, che rappresentano una fetta consistente della seconda generazione".
UPDATE: Diamo un po' di numeri, che aiutano a capire meglio.
Secondo Flavia Amabile de "La Stampa" (ripresa da Dagospia.it), "Il 61,4% dei minori stranieri è nato in Italia. I nati con entrambi i genitori stranieri residenti sono stati 77.109 nel 2010 e rappresentano il 13,7% del totale delle nascite in Italia nell'anno. Più in generale risultano circa 573 mila residenti di cittadinanza straniera nati in Italia, pari a circa il 13,5% del totale degli stranieri residenti, che rappresentano una fetta consistente della seconda generazione".
giovedì 21 marzo 2013
Ciao Pietro Mennea, la Freccia del Sud, grande Italiano
E' mancato oggi Pietro Mennea, campione olimpico, già recordman dei 200m piani, politico, avvocato, e tante altre cose, soprattutto grande Italiano, esempio di come il Sud privo di risorse è spesso fucina di prodigi.
Ecco un suo ritratto realizzato da Raisport1:
mercoledì 13 marzo 2013
Francesco, il nuovo Papa buono che metterà in riga il Vaticano
Quando il Cardinale protodiacono ha annunciato
che il nuovo Papa era il cardinale Bergoglio, in moltissimi (quasi tutti, a
parte gli addetti i lavori), spiazzati, si sono detti: “ma come?”.
Stando al sonoro del sito del Corriere, la
reazione di Piazza san Pietro è stata di sconcerto.
Poi è arrivato lui. Papa Francesco.
Innanzitutto il nome. Francesco. Già, come
San Francesco, il poverello di Assisi, ma anche il rivoluzionario a cui fu
detto: “Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come
vedi, è tutta in rovina”. Un nome che è sintesi di spiritualità, di fede, di povertà.
Chissà perché nessun papa, sinora, ha mai scelto il nome di Francesco (san
Francesco è patrono d’Italia, tra parentesi)..
E poi: il primo Papa gesuita della storia (in questo senso,
il primo Papa “nero”). Ergo coltissimo, di ampie vedute (nella Fede), ma anche addestrato
e attrezzato per mettere in riga la Curia romana e per guidare la nave di
Pietro nella bagarre sociale e politica. Un po’ italiano, perché argentino di
origini italiane. Il primo Papa americano, ma del sud. Non giovanissimo.
Quando si è affacciato al balcone della Loggia delle
Benedizioni, la sensazione è stata un po’ scioccante. Insomma, fa sempre effetto
vedere “un altro” vestito da Papa.
Subito è apparso un po’ titubante. La gestualità benedicente è
migliorabile.
Ma poi, in tre parole, ha conquistato il mondo: “Fratelli e sorelle, buonasera”.
Ora, noi italiani non ci rendiamo conto del privilegio che,
in un certo senso, abbiamo: le prime parole del Papa, in quanto vescovo di
Roma, sono in italiano. Tutto il mondo sta guardando verso la Basilica di San
Pietro, e il Papa, di qualunque nazionalità, esordisce in italiano, e il resto
del mondo deve tradurre (tiè).
Grande, ovviamente, era l’attesa per il primo discorso del
Papa. Che è un discorso a braccio, non preparato, molto emozionale. Per questo,
è il discorso che definisce il “tono” del pontificato.
Ebbene, Papa Francesco si è subito sintonizzato con il popolo
di Roma e con il mondo, con poche parole semplici ed alcuni gesti di grande
significato. Anzi, in un certo senso “sconvolgenti”.
L’esordio, innanzitutto, in cui c’è un accenno quasi apocalittico,
seguito da un’immediata rassicurazione.
“Fratelli e sorelle buona
sera. Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra
che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo,
ma siamo qui”.
Incombeva la questione del “Papa emerito”. E Papa Francesco l’ha
affrontata con “disinnescante” semplicità, senza nessun imbarazzo. In sostanza:
Roma ha un “vescovo emerito”, così come accade spesso – quasi sempre - in tutte
le altre diocesi del mondo.
“Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità
diocesana di Roma al suo vescovo, grazie. E prima di tutto vorrei fare una
preghiera per il nostro vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme
per lui perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca”.
E zac, Papa
Francesco ha piazzato lì subito un Pater Ave Gloria, in mondovisione, in prime time. Proprio uno “scherzetto da
prete”, verrebbe da dire. In un minuto, ha costretto a pregare tutti coloro che
erano presenti o sintonizzati, non solo fedeli, ma anche atei e agnostici, e
tutti coloro che stavano guardando per analisi politica o anche solo per mera curiosità.
Nella sua semplicità, “l’attacco” del Padre Nostro è stato un colpo “da maestro”,
nel senso del magistero di Papa Francesco: partire dalla preghiera più
semplice. Impossibile non pensare al famoso passo di Luca: “un
giorno,Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei
discepoli gli disse: Signore, insegnaci a Pregare, come anche Giovanni ha
insegnato ai suoi discepoli. Allora Gesù disse: Quando pregate, dite: "Padre, sia santificato il tuo nome…”. Papa Francesco è anche un po' inciampato con l'italiano ("Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con ti..."), ma per questo è già simpatico.
Poi, il
“tono”, il “contenuto” del pontificato: fratellanza, amore, fiducia. Evangelizzazione
di Roma, e da Roma. Con un gesto davvero “sconvolgente”. Papa Francesco, vescovo
di Roma, che si china per accogliere la preghiera del popolo di Roma su di lui.
Un gesto sconvolgente, se ci pensiamo. Davvero francescano. A suo modo,
fantascienza. A qualcuno, in Curia, sarà venuto un coccolone.
E adesso incominciamo questo cammino,
vescovo e popolo, questo cammino della chiesa di Roma che è quella che presiede
nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia
tra noi. Preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il
mondo. Perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo e chi mi
aiuterà è il mio cardinale vicario qui presente sia fruttuoso nell’evangelizzazione
di questa bella città. Adesso vorrei dare la benedizione. Ma prima, prima vi
chiedo un favore. Prima che il vescovo benedica il popolo vi chiedo che voi
pregate il Signore perché mi benedica. La preghiera del popolo chiedendo la
benedizione per il suo Vescovo. Facciamo
in silenzio questa preghiera di voi su me”.
Poi la
benedizione “Urbi et Orbi” e l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli presenti, e
a tutti quelli che ricevono la sua benedizione “a mezzo della radio, della televisione, e delle nuove tecnologie di
comunicazione”. Insomma, la prima benedizione con indulgenza plenaria via
internet. In realtà, per tutti, anche per coloro che non erano connessi, come
ha precisato Papa Francesco: “A tutto il
mondo. a tutti gli uomini e donne di buona volontà”. E giù con il latinorum.
E poi
la chiusa finale.
“Fratelli e sorelle, vi lascio, grazie tante
dell’accoglienza. Pregate per me. A presto, ci vediamo presto. Domani voglio
andare a pregare la Madonna perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon
riposo”.
Il messaggio
è chiaro. A letto presto, perché domattina ci si alza presto per lavorare di
lena. Per riparare la Casa. Il tempo stringe. In Curia sono avvisati; secondo
me non tutti, in Vaticano, stanotte dormiranno sonni tranquilli.
1. 25 cose da sapere sul nuovo Papa secondo www.today.it http://www.today.it/cronaca/25-cose-da-sapere-papa-francesco-bergoglio.html
2. Il nuovo Papa si è presentato senza la stola corale simbolo liturgico dell'autorità papale, ma semplicemente vestito di bianco. Il "Vescovo vestito di bianco".
3. La richiesta al Popolo di pregare per chiedere la benedizione del suo Vescovo ha un forste senso di Concilio Vaticano II (il "Popolo di Dio").
lunedì 11 marzo 2013
Memorie di un militante di FLI disperso nel deserto (titolo alternativo: Avevamo – e abbiamo – ragione noi)
(Questo manoscritto
si ritiene appartenga ad un militante di Futuro e Libertà, il cui bagaglio è
stato rinvenuto da alcuni nomadi nel bel mezzo del deserto del Gobi. Del
militante, purtroppo, ancora nessuna traccia).
Scrivo mentre le cronache sono invase dalla “marcia” dei
deputati del PDL sul Tribunale di Milano, per esprimere “solidarietà” a Silvio
Berlusconi. D’altro canto, molti di loro hanno votato in Parlamento che Ruby è la
nipote di Mubarak, per cui va riconosciuta una certa coerenza nella loro
condotta.
[N.d.R. Non
chiedetemi come io sia informato, nel deserto del Gobi, delle vicende del
Tribunale di Milano. Accontentatevi altrimenti viene meno l’artificio
letterario. Comunque vi basti sapere che sono ancora vivo e sostanzialmente in
buona salute, anche se momentaneamente scomparso].
Riprendiamo. Non mi pare fuori tema richiamare questa
vicenda del “processo Ruby” (davvero triste, a mio modo di vedere), come premessa
di una breve riflessione sul risultato elettorale di Futuro e Libertà, partito
in cui ho militato fin dalla sua fondazione, e per il quale mi sono anche
candidato nella circoscrizione Veneto1 alla Camera dei Deputati – in una
posizione volutamente secondaria, per puro “spirito di servizio”.
A cosa serve richiamare la crepuscolare manifestazione
dei deputati PDL a sostegno di Silvio Berlusconi (ben altra cosa il finale che
si era immaginato Nanni Moretti nel “Caimano”!!) per riflettere su Futuro e
Libertà? A mio parere molto. Serve a ricordare, infatti, una delle ragioni
fondamentali per cui Futuro e Libertà nacque, ovvero l’impossibilità politica,
per molti, di proseguire un percorso comune con un personaggio come Silvio
Berlusconi. La richiesta di giudizio immediato per la presunta “compravendita”
del senatore De Gregorio – altra notizia di oggi [N.d.R. qui nel deserto del
Gobi le notizie arrivano subito] - non ci sorprende. Semmai i contorni di
questa vicenda sono venuti a galla troppo tardi.
Insomma, è essenziale tenere presente il contesto di
partenza – Berlusconi e il berlusconismo - nei confronti del quale Futuro e
Libertà ha inteso reagire. E’ alla luce di questo contesto che vanno valutati
torti, ragioni, e anche responsabilità del catastrofico risultato elettorale di
FLI.
Il Presidente Gianfranco Fini si è assunto tutta la responsabilità
di tale risultato. Ed è scontato dire che le responsabilità sono maggiori al
vertice, e degradano e diminuiscono via via, mentre si scende verso il basso,
verso la “base”. Ma si tratterebbe di un’analisi superficiale e incompleta, perché
la questione è ben più complessa.
Voglio affrontare subito l’argomento più scomodo, ovvero
la vicenda della “casa di Montecarlo”. Confesso che su tale questione Fini mi
ha profondamente deluso. E non tanto per il merito della vicenda, che io
ritengo politicamente irrilevante, così come lo è sul piano giuridico (come
hanno certificato i magistrati). Sono rimasto grandemente deluso da come Fini,
politico di grande esperienza, ha gestito la vicenda dal punto di vista delle
comunicazione. Fini non avrebbe dovuto mettere la mano sul fuoco per le persone
a lui più vicine, che purtroppo, forse, hanno tradito la sua fiducia; per il
semplice motivo che, assieme a lui, per quella vicenda tutti i militanti di
Futuro e Libertà sono rimasti con la mano ustionata.
Tuttavia, questo grave errore di comunicazione di Fini è,
a mio parere, assolutamente compensato dai numerosi atti di dignità,
responsabilità e coraggio compiuti dal Presidente, che mi hanno personalmente
convinto a seguirlo fino in fondo in questa “traversata nel deserto” [N.d.R.: ecco perché il deserto del Gobi],
conclusasi, purtroppo, con la morte per sete [N.d.R.: non parlo di me, io sono in gran forma]. Ne elenco tre.
Innanzitutto, l’atto di dignità con cui Fini si è proposto
come leader di tutti coloro che non tolleravano più la leadership di
Berlusconi, per i motivi che ho accennato in premessa, ma anche e soprattutto
per la sua politica (vi ricordate il
baciamano a Gheddafi, l’amicizia subalterna con Putin, l’alleanza prona alla
Lega sui temi dell’immigrazione?), per il modo in cui aveva strutturato il PDL,
e per le dinamiche interne a tale “partito”. Certo, ci sarà stata una dose di
calcolo politico negli atti di Fini che hanno condotto alla rottura con
Berlusconi e alla conseguente espulsione di Fini stesso dal PDL; fatto sta,
però, che nel centrodestra nessun altro ha avuto il coraggio di opporsi con
forza a Berlusconi nel corso della XVI legislatura.
Un secondo atto di dignità - e soprattutto di
responsabilità - è stata, a mio parere, la decisione di Fini di completare il
proprio mandato di Presidente della Camera. Sono certo che su questo punto non
tutti, e anzi forse non molti sono d’accordo. Tuttavia io sono convinto che per
Fini, in certi momenti, sarebbe stato molto più facile dimettersi da tale
carica. Forse, dal punto di vista del consenso elettorale, gli sarebbe
addirittura convenuto. Io sono convinto che non l’abbia fatto per non
consegnare la Presidenza della Camera ad un pretoriano di Berlusconi, con le
relative inevitabili ripercussioni sull’andamento dei lavori parlamentari. Un
giorno, quando sarà possibile farlo con il dovuto distacco, occorrerà
analizzare con oggettività il ruolo che Fini, quale Presidente della Camera, ha
avuto come barriera contro le innumerevoli, ripetute proposte di legge ad personam volute dai Berlusconi e dai
suoi. Un ruolo di cui Fini forse, ad un certo punto, è rimasto politicamente “prigioniero”.
Il terzo atto di grande dignità, responsabilità e
coraggio di Fini è stato, infine, quello di candidarsi alla Camera, alla testa delle
liste di Futuro e Libertà. Fini ha rischiato in prima persona, ha giocato la
partita a viso aperto, e ha perso, affrontando la sconfitta (a differenza, ad
esempio, di Casini che furbescamente si è rifugiato in un seggio sicuro al
Senato nella lista Monti). A mio parere, proprio alla luce di tutto quanto
sopra, si tratta di un gesto che compensa ogni torto o responsabilità che Fini
possa aver avuto dalla fondazione di FLI fino ad oggi. Personalmente, si tratta
del gesto che ha convinto anche me a candidarmi, a “metterci la faccia”, come
si dice in gergo, anche se in una posizione di rincalzo. Il gesto di coraggio e
dignità di Fini è stato condiviso da tutti coloro che, in questo contesto, e
pur a fronte di sondaggi drammatici, hanno avuto il coraggio di candidarsi, e
di esporsi, per una semplice e giusta convinzione: avevamo - e abbiamo - ragione
noi, su tutto: su Berlusconi, sul PDL (solo “da dentro”, ahimè, ci siamo resi
conto, dopo essere stati ingannati dalla chimera di un grande partito di
centrodestra, in un contesto bipolare…), su Putin, su Gheddafi, su Scilipoti e
Razzi, sulla Lega, sulle leggi ad personam, eccetera eccetera.
Insomma, l’Italia è davvero strana, o quantomeno è
davvero strano il momento che l’Italia sta vivendo. Un momento in cui
l’immagine ed il consenso elettorale di Fini vengono azzerati da un’ingenuità politicamente
e giuridicamente irrilevante, mentre Berlusconi, nonostante tutti gli scandali,
le condanne, il conflitto d’interessi, etc., è ancora premiato dal consenso di
parte importante degli Italiani.
L’Italia è un Paese in cui la promessa irresponsabile di
Berlusconi di restituire l’IMU è vincente, mentre viene punito l’atto di
responsabilità di Fini e di FLI di sostenere il governo Monti e le sue
politiche di rigore – inevitabili dopo le decisioni che proprio Berlusconi aveva
preso prima di abbandonare la nave, così da lasciare proprio a Monti i
contraccolpi dell’inevitabile impopolarità.
La riflessione è evidentemente amara, soprattutto per il
suo significato politico. I flussi elettorali rivelano che la maggior parte dei
voti alla coalizione Monti sono arrivati dal centro-sinistra. Purtroppo, il
senso della responsabilità istituzionale e del rigore economico nel contesto UE
- che sono sostanzialmente declinazioni particolari e puntuali di un più ampio
concetto di legalità - in questo momento non fanno breccia nell’elettorato di
centrodestra. Quest’ultimo, infatti, continua a riconoscersi in Berlusconi, quale
paladino e difensore degli status che
tutti in Italia hanno a cuore, della sicurezza di molti imprenditori, ma,
soprattutto, di moltissimi piccoli proprietari immobiliari (la stragrande
maggioranza degli Italiani). Poco importa che Berlusconi faccia promesse
irresponsabili e irrealizzabili, che abbia a cuore solo i propri interessi, e
che solletichi a volte la parte meno nobile dell’animo italiano. C’è un vasto blocco
sociale di centrodestra che guarda ancora a Berlusconi, perché vede minacciate le
proprie sicurezze. E non è sensibile a parole come responsabilità, rigore,
legalità, soprattutto se le considera scuse per garantire risorse ad uno Stato
avido, iniquo ed inefficiente.
A mio parere queste sono le riflessioni principali che
vanno tenute in considerazione, per analizzare il risultato elettorale, ed anzi
tutta la parabola di FLI, dalla sua fondazione fino ad oggi.
Vi sono poi alcuni aspetti più puntuali che comunque
vanno presi in considerazione.
E’ vero, in FLI ha pesato forse troppo il ruolo dei
parlamentari. E’ vero, è stata scelta – sbagliando, a mio parere - la forma del
partito “pesante” (con le tessere, le sezioni, i Congressi), ed è stata abbandonata
la forma del partito “leggero”. E’ vero, a Milano si è perso lo “spirito di
Bastia Umbra”. Tuttavia, non dobbiamo dimenticarci che tra Bastia Umbra e
Milano c’è stato il 14 dicembre, data in cui la sfida lanciata a Berlusconi da
Gianfranco Fini è stata sconfitta in Parlamento. A mio parere, la scelta di
Fini per il partito organizzato, “pesante”, è stata determinata dalla convinzione
che sarebbe stato uno strumento indispensabile per affrontare Berlusconi alle
elezioni. Certamente a Fini è mancata quella capacità visionaria che – per
dirne una, a mò di provocazione - ha consentito a Grillo e Casaleggio di
costruire un movimento che ha ottenuto il 25,55% alla Camera, senza un euro di
finanziamento pubblico (proprio come FLI). Ma non deve sorprendere la diversità
di approccio, che era forse inevitabile: Fini – ed in certa misura tutti coloro
che lo hanno seguito - hanno una visione della politica che è agli antipodi
rispetto a quella di Grillo e Casaleggio. E l’argomento, badate bene, non va
chiuso qui, con autoassoluzioni consolatorie (“non ci hanno capito, amen,
peggio per loro”). Va anzi studiato ed approfondito, perché il Movimento Cinque
Stelle rappresenta una sfida alla politica e alle istituzioni repubblicane che
va ancora compresa in tutti i suoi contorni, gravida com’è di componenti
innovative ma anche di potenziali minacce per la democrazia rappresentativa,
che costituisce uno dei cardini ispiratori della nostra Costituzione.
Inoltre, è troppo facile puntare il dito contro
responsabilità individuali per il risultato elettorale di FLI – catastrofico ripeto - in Italia e in
Veneto (N.d.R. Regione che mi sta a cuore, visto che ci vivo e lavoro, a parte ora che
sono momentaneamente disperso nel deserto del Gobi). Chi vuole affrontare
questo argomento in maniera completa e oggettiva, deve considerare che proprio a
Milano abbiamo assistito a defezioni fondamentali e sconcertanti per il partito
veneto (per il modo in cui sono state, anzi, NON sono state sostanzialmente spiegate,
almeno alcune, a parte quella di Bellotti che si commenta da sola): Urso, Saia
e Bellotti (che a dir la verità mi
scoccia menzionare due volte nello stesso paragrafo, perché non merita così
tanta pubblicità e attenzione, ma amen e così sia). A mio modo di vedere, FLI Veneto
è rimasto scosso nelle fondamenta da tali atti, e i contraccolpi non sono mai davvero
cessati. Per questo occorre riconoscere il merito di chi ha accettato,
nonostante tutto, dopo tali defezioni, di raccogliere il testimone e continuare
la sfida. E mi riferisco soprattutto a Giorgio Conte, che si è trovato a
guidare uno dei coordinamenti regionali più difficili, in uno scenario ancora
più difficile. Io personalmente lo ringrazio per questo; è stato un costante
punto di riferimento, e ritengo che lo dobbiamo ringraziare tutti. Un solo dato
di fatto, su tutti: se Giorgio non avesse resistito alle sirene berlusconiane, FLI
Veneto sarebbe morto ben prima di febbraio 2013.
Cosa fare adesso? Beh, mi pare che FLI continui ad
esistere giuridicamente, ma sia politicamente estinto. Abbiamo appreso [anche qui nel deserto del Gobi] che le
cariche sono state “azzerate”, compresa quella di Fini, e che verrà convocata
un’assemblea costituente per un progetto nuovo. [Qui nel deserto del Gobi non abbiamo ben capito cosa significhi, ma
tant’è].
A mio parere – ma forse sono un po’ naif, e troppo legato
alle regole – servirebbe un Congresso, anche solo per sciogliersi. Ma non è
questo il punto essenziale. Ciò che conta è che vedo i deputati del PDL che
fanno un sit in davanti al Tribunale di Milano perché – evidentemente - sono
ancora convinti che Ruby fosse la nipote di Mubarak, e mi ripeto: avevamo, e
abbiamo ragione noi. E’ da questo che dobbiamo ripartire.
venerdì 8 marzo 2013
Una storia per l’8 marzo: Kathrine Switzer, la prima maratoneta “ufficiale”
Oggi, 8 marzo, si festeggia la giornata
internazionale della donna (comunemente definita, anche se in maniera impropria, “festa della donna”).
Stamattina su Radio24 sentivo che a
“nove in punto” si parlava di quote rosa. Una combattiva ricercatrice dell’Istituto
Bruno Leoni le criticava, sostenendo che non si tratta di uno strumento valido
per garantire l’avanzamento della condizione femminile ed un’effettiva
meritocrazia, perché – all’occorrenza – i potenti di turno hanno tutti, solitamente,
una moglie, una figlia, un’amante da piazzare in questo o quell’incarico per
riempire – appunto – una quota rosa.
Pensando a queste cose, mi è venuta
in mente la storia di Kathrine Switzer. Si tratta di una di quelle storie di
sport a mio parere speciali, per la loro carica simbolica.
Ora, Kathrine Switzer è la prima
donna ad aver corso ufficialmente una maratona (non olimpica).
Facciamo un po’ di storia. E’ noto
che nell’antica Grecia, le donne non potevano assolutamente partecipare alle
competizioni atletiche; anzi erano tenute proprio alla larga, non potevano
nemmeno assistere come spettatrici. Per quanto riguarda le Olimpiadi moderne
(la prima edizione è del 1896), le donne sono state ammesse solo nel 1928. Fino
al 1968, però, per quanto riguarda le gare di corsa, la distanza massima prevista
per le donne erano gli 800m; solo nel 1972 sono stati introdotti i 1500m. Il
motivo? Organizzatori e medici erano convinti che il fisico femminile non fosse
in grado di sostenere distanze più lunghe.
Però si sa che le donne sono
testarde, e quindi in molte provarono fin da subito a correre la maratona anche
senza permesso “ufficiale”. Si dice che la greca Stamatis Rovithi abbia corso
la distanza da Maratona ad Atene nel 1896, un mese prima della maratona
olimpica, ma non si sa il tempo. Un mese dopo la greca Melpomene tentò di
partecipare alla prima maratona olimpica vera e propria, ma fu allontanata dalla
gara, che però corse fino in fondo costeggiando, al di fuori, il percorso
ufficiale. Ci mise un’ora e mezzo in più del vincitore Spiridon Louis, ma fu
comunque una grande dimostrazione di volontà.
Per quanto riguarda le maratone non
olimpiche, si hanno i tempi ufficiosi di due donne che le completarono, anche
se non erano state ufficialmente iscritte – diciamo, così, “nell’anonimato”: Violet Piercy (3h40'22", 1926), di Roberta Gibb (3h21'25",
1966, Boston). La partecipazione "non ufficiale" della Gibb nel 1966, in particolare, ebbe notevole risonanza.
E qui arriviamo a Kathrine Switzer,
studentessa di giornalismo, la prima donna ad essere ammessa ufficialmente, con
tanto di pettorale, ad una maratona non olimpica, sempre a Boston. Era il 1967.
In realtà, dire che era stata ammessa “ufficialmente” è un po’ una forzatura. Si
era registrata come K.V. Switzer, e gli organizzatori non si erano accorti che
si trattava di una donna. Lei però sostiene che non aveva voluto ingannarli, perché
da tempo firmava così i propri articoli sul giornale del college (chissà se gli
organizzatori della maratona di Boston li avevano mai letti). Insomma, fatto
sta che la Switzer si presentò alla linea di partenza col suo bel pettorale, e
allo sparo del via cominciò a correre in tutta tranquillità. Finchè la sua
strada si incrociò con Jock Semple, runner, fisioterapista, allenatore e –
soprattutto – giudice di gara della maratona di Boston.
Semple era uno che ci teneva
alla “serietà” della maratona. Infatti si era contraddistinto per i modi rudi –
ai limiti della denuncia – con cui aveva più volte allontanato dalla corsa
coloro che – a volte studenti del MIT o di Harvard vestiti con costumi
stravaganti – si “imbucavano” nella gara come bravata goliardica.
Ebbene, quando il rigoroso Jock
Semple si rese conto che una donna, la Switzer appunto, stava correndo la
maratona, le corse dietro urlandole: “Via dalla mia gara e dammi quel pettorale!”.
Ma il fidanzato della Switzer, che la accompagnava, respinse Semple in malo
modo, e altri corridori le fecero letteralmente “scudo “ e la scortarono per l’intera
maratona fino al traguardo.
Il fatto ebbe grande risonanza, e ne seguirono non poche polemiche. Ci volle ancora un po’ perché la
maratona fosse ritenuto uno sport “per signorine” (e signore). Nel 1972 le
donne furono infine ammesse alla maratona di Boston. La prima maratona femminile
internazionale si tenne in Germania, a Weldniel. La prima maratona olimpica,
poi, addirittura nel 1984 a Los Angeles (vinse l’americana Joan Benoit).
Però è chiaro che una “spallata”
nel muro del pregiudizio l’aveva data proprio Kathrine Switzer (assieme a Roberta Gibb e alle altre donne che avevano sfidato quel muro).
E si tratta davvero di
una storia di quelle edificanti, con tanto di lieto fine. Infatti, l’arcigno
giudice di gara Semple si riconciliò pubblicamente con la Switzer, e divenne un
sostenitore della partecipazione femminile alla maratona. Insomma, la Switzer aveva
vinto su tutta la linea.
Auguri a tutte le donne!
(P.S. grazie a Michele Fiorini
che mi ha spinto a scrivere questo post!)
Le foto sono tratte da qui: http://globedia.com/kathrine-switzer-heroina-atletas
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