sabato 7 maggio 2022

Roe v. Wade: una “talpa” per intimidire la Corte Suprema, in puro stile Dem

Questa settimana la politica Usa è stata terremotata dalla fuga di notizie sulla sentenza che la Corte Suprema sarebbe in procinto di pronunciare sull'aborto. Di seguito, l'articolo che ho scritto su Atlantico Quotidiano.


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La politica Usa è scossa dallo scoop della testata Politico, che ha ricevuto e pubblicato la prima bozza della sentenza con cui la Corte Suprema avrebbe deciso – il condizionale, come si vedrà, è d’obbligo – di ribaltare la famosa sentenza Roe c. Wade del 1973, che riconobbe il diritto costituzionale della donna all’aborto. Un passo che era nell’aria, ma che è comunque clamoroso per la sua portata storica, perché si tratterebbe di abbandonare un orientamento giurisprudenziale – e, con esso, uno specifico regime di tutela dei diritti delle donne – che sta per compiere cinquant’anni.

Per comprendere le dirompenti ripercussioni politiche del problema, è indispensabile ricostruire il contesto in cui si inserisce questa stupefacente fuga di notizie. Secondo quanto è dato comprendere leggendo la bozza di sentenza, la Corte intende compiere questo passo nel caso Dobbs c. Jackson Women’s Health Organization, in cui si discute sulla costituzionalità di una legge dello Stato del Mississippi del 2018 che ha anticipato al compimento della quindicesima settimana di gravidanza il divieto di aborto, salvi i casi di emergenza medica o di gravi malformazioni del feto. La legittimità costituzionale di questa legge statale è contestata perché l’attuale orientamento della Corte Suprema federale consente, invece, di limitare l’aborto solo dopo la ventitreesima-ventiquattresima settimana di gravidanza, quando, cioè, la maggioranza degli esperti considera che il feto potrebbe sopravvivere autonomamente.

La bozza divulgata da Politico è scritta come un’opinione di maggioranza, e ciò significa che almeno cinque giudici della Corte (in totale sono nove) dopo la discussione orale della causa Dobbs, svoltasi lo scorso 1 dicembre, hanno votato per ribaltare la sentenza Roe c. Wade e la successiva sentenza Planned Parenthood c. Casey, che l’aveva confermata negli aspetti sostanziali. Nella bozza della sentenza Dobbs, redatta dal giudice Alito, si legge che Roe c. Wade è una sentenza “palesemente sbagliata fin dall’inizio” e “profondamente dannosa”, perché la Costituzione federale non menziona esplicitamente l’aborto (il che, testualmente, è vero), né tutela tale diritto implicitamente (argomento che, invece, è oggetto di acceso dibattito da quasi cinquant’anni). Secondo successive rivelazioni della Cnn, i cinque giudici che sarebbero d’accordo con il “ribaltone” giurisprudenziale sono tutti “conservatori”, tutti nominati, cioè, da presidenti del Partito Repubblicano: oltre allo stesso Alito (nominato da Bush jr.), si tratterebbe di Clarence Thomas (nominato da Bush sr.), e dei tre giudici nominati da Trump, ovvero Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett. Il Chief Justice Roberts, che pure è classificato come “conservatore” in quanto anch’egli nominato da Bush jr., sarebbe, secondo indiscrezioni, orientato per un’opinione parzialmente dissenziente (che con terminologia profana potremmo definire “cerchiobottista”), ovvero sarebbe d’accordo nel ritenere la legge del Mississippi costituzionalmente legittima, ma sarebbe contrario al completo accantonamento del precedente Roe c. Wade.

Le fughe di notizie dalla Corte Suprema Usa sono rare, visto che le regole a salvaguardia della riservatezza del lavoro dei giudici sono estremamente rigide; e, quando avvengono, sono quasi sempre clamorose, poiché si tratta dell’organo giudiziario che tratta i casi più importanti dell’intera federazione. Vi furono indiscrezioni, ad esempio, anche in occasione del caso Roe c. Wade, proprio il famoso precedente in materia di aborto che ora la Corte avrebbe deciso di ribaltare. Lo stesso Chief Justice Roberts ha chiarito, con un comunicato ufficiale, che la bozza oggetto della fuga di notizie è autentica, ma che non si tratta della decisione definitiva, ed ha ordinato un’indagine, assicurando che l’episodio non minerà l’integrità dell’attività della Corte.

In questo caso, lo scoop di Politico è clamoroso non solo perché riguarda l’aborto, argomento estremamente sensibile e polarizzante negli Stati Uniti (e altrove), ma perché avviene in quello che potrebbe essere il momento decisivo, e quindi più delicato, del processo decisionale della Corte. Le bozze delle decisioni e perfino i voti dei giudici a volte cambiano nel periodo che intercorre tra il voto iniziale, che, come detto, i giudici effettuano dopo aver ascoltato la discussione orale, e la pubblicazione della sentenza definitiva, che in questo caso era prevista a cavallo tra fine giugno ed inizio luglio, prima della pausa estiva.

Le interpretazioni possibili sono più d’una. La “talpa” potrebbe essere un giudice progressista o un suo assistente, che intende fare pressione sui cinque colleghi conservatori per convincere almeno uno a cambiare idea. Oppure potrebbe trattarsi di uno di questi cinque giudici, o di un suo assistente, che ha capito che qualcuno sta per “defilarsi” e intende impedirglielo. Comunque sia, nella Corte c’è un cosiddetto “whistleblower”, il cui scopo è sabotare la decisione, o, in ogni caso, infiammare il dibattito pubblico (che rischia di essere dirompente dal punto di vista istituzionale) per influenzarne l’esito.

Roe v. Wade è tra le decisioni più controverse nella storia della Corte Suprema. Come furono veementi le reazioni che la accolsero più di 49 anni fa, non possono essere che accese le reazioni alla decisione di “ripudiarla”, che ha comunque portata storica. E siamo solo all’inizio. Per di più, le gravi imprecisioni compiute dai media nostrani nel riportare la notizia non ci aiutano a comprendere i termini del dibattito.

Cerchiamo di fare chiarezza. Se la decisione sarà quella formulata con la bozza redatta dal giudice Alito, ciò non comporterà, di per sé, l’introduzione negli Stati Uniti del divieto di abortire. Tale decisione, infatti, avrà un risultato diverso, ovvero eliminerà il divieto, per gli Stati membri della federazione, di approvare leggi che limitino o vietino l’aborto in maniera difforme rispetto a quanto stabilito dalla Corte Suprema con la sentenza Roe c. Wade e, successivamente, Casey. In altre parole, spetterà al legislatore statale, o federale, democraticamente eletto, regolare la questione. Ed è facile prevedere che negli Stati governati dai Democratici l’aborto rimarrebbe ampiamente consentito, mentre verrebbe limitato o vietato in quelli a maggioranza repubblicana. Non si avrebbe più, così, una base di tutela uniforme in tutta la federazione.

Lo scoop di Politico è una scossa di terremoto nella campagna per le elezioni di medio termine del prossimo novembre. Se fino a ieri i principali argomenti del dibattito erano, per i Democratici, l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 come momento “squalificante” per Trump e per tutti coloro che lo sostengono, e, per i Repubblicani, il caro prezzi, da oggi il tema dell’aborto, estremamente controverso, irrompe sulla scena.

I Democratici hanno reagito immediatamente, dando l’impressione di avere i comunicati stampa già pronti nel cassetto, in perfetta coordinazione tra loro (erano stati avvertiti?). La Speaker della Camera Nancy Pelosi e il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer hanno attaccato i giudici conservatori della Corte Suprema con una dichiarazione durissima. Il senatore Bernie Sanders si è messo a capo dell’ala progressista e invocato l’approvazione urgente di una legge federale a tutela del diritto di abortire. Cosa facile a dirsi, ma molto difficile, se non impossibile, a farsi, perché al Senato i Democratici non hanno una vera maggioranza (l’assemblea è, di fatto, divisa esattamente a metà, 50 Repubblicani contro 48 Democratici e 2 Indipendenti, questi ultimi affiliati al gruppo democratico), e le attuali procedure richiedono addirittura 60 voti.

Il presidente Biden ha diffuso un comunicato con il quale, in sostanza, ha chiesto alla Corte di non ribaltare Roe c. Wade. Biden, però, oltre ad essere in crisi nei sondaggi, ha un problema di credibilità sull’argomento specifico. Nella sua lunga carriera politica ha fatto molte cose, e non tutte coerenti tra di loro. E sul tema dell’aborto ha giustificato i propri cambi di opinione con l’influenza del proprio background cattolico. All’inizio degli anni Ottanta ha dapprima votato a favore, e poi contro un emendamento costituzionale che avrebbe consentito ai singoli Stati membri di legiferare in materia anche oltre i limiti posti da Roe c. Wade. E poi nel 2003 ha votato, da senatore, a favore del Partial-Birth Abortion Ban Act, legge che vieta una specifica e molto controversa procedura abortiva. Oggi la sua nuova mossa è tentare, insieme ai suoi colleghi di partito, di cambiare una sentenza della Corte Suprema.

Se la fuga di notizie dalla Corte Suprema è clamorosa, altrettanto lo è l’attacco coordinato mosso dal potere legislativo e dal potere esecutivo federali nei confronti dell’indipendenza della Corte, ovverosia del più alto organo del potere giudiziario federale. Ci sono tutti i presupposti per una grave crisi istituzionale, che rischia di assumere connotati pericolosi, se i Democratici non resisteranno alla tentazione di incoraggiare le proteste di piazza. Una preoccupazione tutt’altro che peregrina, visto quanto avvenuto il 6 gennaio 2021, quando a scendere in piazza per protestare, in quel caso, contro l’esito delle elezioni presidenziali, sono stati i sostenitori di Trump, che si sono spinti fino ad invadere il Campidoglio, dimostrando come gli Stati Uniti siano un Paese non solo profondamente diviso, ma anche sull’orlo di una vera e propria crisi di nervi.

La sfida per i Democratici è decisiva. Sul tavolo della Corte Suprema non c’è solo il tema dell’aborto e del diritto di scelta delle donne, ma anche il pericolo di una grave sconfitta politica che aumenterebbe per loro il rischio, attualmente concreto, di perdere la maggioranza al Congresso alle elezioni di medio termine di novembre. I sondaggi – per quello che valgono – sono preoccupanti.

Il cambio di rotta della Corte Suprema in materia di aborto sarebbe a tutti gli effetti una vittoria “postuma” della presidenza di Donald Trump, che potrebbe galvanizzare i Repubblicani. La nomina di giudici conservatori “a tutto tondo”, pronti ad accantonare “automaticamente” la sentenza Roe c. Wade alla prima occasione utile, era stata una delle promesse elettorali di Trump, che ha potuto mantenerla ben tre volte, nominando Gorsuch (che rimpiazzò Scalia, leggenda dei conservatori), Kavanaugh (al posto del “moderato” Kennedy) e, soprattutto, Barrett al posto del giudice Ginsburg, quest’ultima simbolo progressista e paladina del diritto di scelta delle donne, che morì poche settimane prima delle elezioni del 2020. Riuscendo a nominare questi tre giudici relativamente giovani (si tratta di incarichi a vita), e, in particolare, con la nomina di Barrett al posto di Ginsburg, Trump è riuscito, nonostante la veemente opposizione democratica, ad assicurare nella Corte Suprema una duratura maggioranza conservatrice di 6 a 3. Ciò, almeno, sulla carta, vista la descritta propensione – che tende ad essere un’abitudine nei frangenti decisivi – del Chief Justice Roberts a votare coi giudici “progressisti” (proprio un ripensamento all’ultimo di Roberts avrebbe salvato la riforma sanitaria di Obama nel 2012).

Il nuovo equilibrio creato nel supremo organo giudiziario federale non ha dato a Trump tutti i risultati che si attendeva. La Corte Suprema si è ostinatamente rifiutata di dare corda ai ricorsi che il presidente uscente e i suoi alleati hanno presentato per cercare di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali del 2020. La Corte, nel fare ciò, ha rafforzato il proprio ruolo di arbitro terzo, imparziale e indipendente. Si tratta ora di capire se il “capitale politico” (in senso istituzionale) accumulato in quell’occasione basterà alla Corte per non soccombere alle pressioni che gli altri poteri dello Stato federale hanno deciso ora di esercitare nei suoi confronti, sfruttando il varco aperto da “gole profonde”, e – le prossime settimane ci diranno se andrà così –  cavalcando le proteste organizzate dai professionisti dell’attivismo politico.

Trump prepara la riscossa: niente terzo partito, capo dell’opposizione a Biden e conquista del Gop

Non ho mai riportato qui il mio articolo del 2 marzo 2021 pubblicato su Atlantico Quotidiano. Rimedio, anche perchè mi sembra ancora piuttosto attuale...


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Dopo poco più di un mese lontano dai riflettori e dai social media, da cui è stato bandito, e dopo essere stato assolto nel secondo giudizio di impeachment, Donald Trump torna al centro della scena politica, statunitense e non solo.

Il palcoscenico è stato quello “amico” della Conservative Political Action Conference (CPAC), l’annuale conferenza del movimento conservatore americano, che, semplificando, può essere definita come il raduno dell’ala destra del Partito Repubblicano.

Trump ha prevalso nello straw poll, il “sondaggio di paglia” che viene tradizionalmente svolto tra i partecipanti al termine della conferenza, e che, a conti fatti, gli ha assegnato il titolo “virtuale” di candidato di punta del partito per le presidenziali del 2024. È vero, il significato di questo sondaggio è relativo, proprio perché viene condotto solo tra gli appartenenti ad una “corrente” del partito. Tanto per dirne una, nel 2016 lo vinse Ted Cruz, che fu di lì a poco demolito proprio da Trump durante le primarie.

Bisogna però considerare che nel 2016 Trump era ancora un corpo estraneo al partito, e la sua vittoria alle primarie fu un’autentica sorpresa, seconda solo alla sua vittoria alle presidenziali vere e proprie. Ma lo straw poll del CPAC ci dice almeno tre cose su Trump, tutte importanti: non è diventato un “impresentabile”, come volevano ridurlo i Democratici con il secondo impeachment; non è più un corpo estraneo al Partito Repubblicano, come speravano che continuasse ad essere i repubblicani più “moderati” (quelli che i partecipanti al CPAC definiscono Rinos, ovvero “Republicans In Name Only”, Repubblicani solo nel nome); ed il Gop, dal punto di vista elettorale, non può prescindere da lui.

Dopo lo straw poll, Trump ha pronunciato il suo primo discorso pubblico dall’uscita dalla Casa Bianca. Lo stile è stato quello di sempre, ma si è trattato, nel complesso, di un intervento più strutturato del solito dal punto di vista politico. Per fare una sintesi dei passaggi più importanti, ha attaccato su tutta la linea il primo mese dell’amministrazione Biden, che ovviamente ha definito disastroso, dalla Cina allo sport femminile minacciato dagli atleti trans; ha rispolverato le accuse sui brogli elettorali, denunciando l’”ignavia” della Corte Suprema, che si è rifiutata di affrontare la questione per motivi procedurali; si è “intestato” la battaglia per una riforma delle regole elettorali che limiti allo stretto indispensabile il voto anticipato o per posta, e che imponga in tutti gli Stati ad ogni elettore di presentare una forma di identificazione ufficiale – tema osteggiato dal Partito Democratico, che lo ritiene discriminatorio nei confronti delle minoranze, ma battaglia ormai storica del Partito Repubblicano che, quindi, può essere per Trump un’arma di leadership unificante; ha denunciato la censura subita dai social media, sollecitando norme statali a tutela della libertà di espressione, in mancanza di interventi del potere federale; ha fatto la lista dei “traditori” presenti tra i Repubblicani eletti al Congresso, promettendo che li farà sfidare, alle primarie, da propri fedelissimi, senza timore di scatenare lotte interne al partito.

Soprattutto, ha ribadito l’idea – vincente nel 2016 – di rendere il Gop il punto di riferimento dei “colletti blu” e di tutte le classi lavoratrici e imprenditoriali “tradite” dalla politica economica dei Democratici e dalla globalizzazione. Smentendo alcune voci circolate nelle ultime settimane, ha chiarito di non voler fondare un nuovo partito. La sua strategia è un’altra: rendere il proprio movimento egemone nel Partito Repubblicano, per poi puntare di nuovo, nel 2024, alla Casa Bianca, personalmente o tramite un proprio “surrogato”. Questa strategia dovrà affrontare un test decisivo già l’anno prossimo, alle elezioni di medio termine. E – occorre dirlo – i precedenti non sono a favore di un secondo mandato presidenziale di Trump. Nella storia, infatti, solo un presidente ha vinto due mandati non consecutivi, Grover Cleveland, ma stiamo parlando di cosa accaduta più di 150 anni fa, e mai più avvenuta.

Ma al di là delle ambizioni personali di Trump, contano soprattutto le ricadute politiche ed istituzionali delle sue mosse. Con il plateale ritorno in campo dell’ex inquilino della Casa Bianca, anche gli Stati Uniti hanno ora la figura del leader dell’opposizione. Per lungo tempo non prevista né dal punto di vista della prassi politica, né tantomeno da quello istituzionale, è stata inventata e impersonata in maniera obliqua e criptica da Obama durante il mandato di Trump, ed ora assume, proprio con Trump, forma più esplicita. Si profila così un problema di equilibrio del sistema politico americano, a maggior ragione con un presidente debole (Biden) ed un “leader dell’opposizione” ingombrante (Trump).

La riapparizione di Trump ha poi effetti anche sul piano internazionale: i fanatici del globalismo non possono pensare di tornare serenamente al business as usual. Trump non è stato ridotto, come speravano, ad una parentesi archiviata nell’ignominia. È vivo e vegeto, e può continuare ad essere un punto di riferimento anche al di fuori degli Stati Uniti per tutti quei movimenti che sono stati indicati, con etichetta demonizzante, come “sovranisti”. Soprattutto, le ragioni della sua sopravvivenza politica sono le stesse che lo hanno fatto vincere, a sorpresa, nel 2016. Gli squilibri della globalizzazione sono ancora lì, intatti. E non possono essere semplicemente ignorati.

Letture - L'errore di calcolo di Bin Laden

L'articolo " Bin Laden’s Catastrophic Success " di Nelly Lahoud, pubblicato su Foreign Affairs nel settembre/ottobre 2021 , c...