Non ho mai riportato qui il mio articolo del 2 marzo 2021 pubblicato su Atlantico Quotidiano. Rimedio, anche perchè mi sembra ancora piuttosto attuale...
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Dopo poco più di un mese lontano dai riflettori e dai social media, da cui è stato bandito, e dopo essere stato assolto nel secondo giudizio di impeachment, Donald Trump torna al centro della scena politica, statunitense e non solo.
Il palcoscenico è stato quello “amico” della Conservative Political Action Conference (CPAC), l’annuale conferenza del movimento conservatore americano, che, semplificando, può essere definita come il raduno dell’ala destra del Partito Repubblicano.
Trump ha prevalso nello straw poll, il “sondaggio di paglia” che viene tradizionalmente svolto tra i partecipanti al termine della conferenza, e che, a conti fatti, gli ha assegnato il titolo “virtuale” di candidato di punta del partito per le presidenziali del 2024. È vero, il significato di questo sondaggio è relativo, proprio perché viene condotto solo tra gli appartenenti ad una “corrente” del partito. Tanto per dirne una, nel 2016 lo vinse Ted Cruz, che fu di lì a poco demolito proprio da Trump durante le primarie.
Bisogna però considerare che nel 2016 Trump era ancora un corpo estraneo al partito, e la sua vittoria alle primarie fu un’autentica sorpresa, seconda solo alla sua vittoria alle presidenziali vere e proprie. Ma lo straw poll del CPAC ci dice almeno tre cose su Trump, tutte importanti: non è diventato un “impresentabile”, come volevano ridurlo i Democratici con il secondo impeachment; non è più un corpo estraneo al Partito Repubblicano, come speravano che continuasse ad essere i repubblicani più “moderati” (quelli che i partecipanti al CPAC definiscono Rinos, ovvero “Republicans In Name Only”, Repubblicani solo nel nome); ed il Gop, dal punto di vista elettorale, non può prescindere da lui.
Dopo lo straw poll, Trump ha pronunciato il suo primo discorso pubblico dall’uscita dalla Casa Bianca. Lo stile è stato quello di sempre, ma si è trattato, nel complesso, di un intervento più strutturato del solito dal punto di vista politico. Per fare una sintesi dei passaggi più importanti, ha attaccato su tutta la linea il primo mese dell’amministrazione Biden, che ovviamente ha definito disastroso, dalla Cina allo sport femminile minacciato dagli atleti trans; ha rispolverato le accuse sui brogli elettorali, denunciando l’”ignavia” della Corte Suprema, che si è rifiutata di affrontare la questione per motivi procedurali; si è “intestato” la battaglia per una riforma delle regole elettorali che limiti allo stretto indispensabile il voto anticipato o per posta, e che imponga in tutti gli Stati ad ogni elettore di presentare una forma di identificazione ufficiale – tema osteggiato dal Partito Democratico, che lo ritiene discriminatorio nei confronti delle minoranze, ma battaglia ormai storica del Partito Repubblicano che, quindi, può essere per Trump un’arma di leadership unificante; ha denunciato la censura subita dai social media, sollecitando norme statali a tutela della libertà di espressione, in mancanza di interventi del potere federale; ha fatto la lista dei “traditori” presenti tra i Repubblicani eletti al Congresso, promettendo che li farà sfidare, alle primarie, da propri fedelissimi, senza timore di scatenare lotte interne al partito.
Soprattutto, ha ribadito l’idea – vincente nel 2016 – di rendere il Gop il punto di riferimento dei “colletti blu” e di tutte le classi lavoratrici e imprenditoriali “tradite” dalla politica economica dei Democratici e dalla globalizzazione. Smentendo alcune voci circolate nelle ultime settimane, ha chiarito di non voler fondare un nuovo partito. La sua strategia è un’altra: rendere il proprio movimento egemone nel Partito Repubblicano, per poi puntare di nuovo, nel 2024, alla Casa Bianca, personalmente o tramite un proprio “surrogato”. Questa strategia dovrà affrontare un test decisivo già l’anno prossimo, alle elezioni di medio termine. E – occorre dirlo – i precedenti non sono a favore di un secondo mandato presidenziale di Trump. Nella storia, infatti, solo un presidente ha vinto due mandati non consecutivi, Grover Cleveland, ma stiamo parlando di cosa accaduta più di 150 anni fa, e mai più avvenuta.
Ma al di là delle ambizioni personali di Trump, contano soprattutto le ricadute politiche ed istituzionali delle sue mosse. Con il plateale ritorno in campo dell’ex inquilino della Casa Bianca, anche gli Stati Uniti hanno ora la figura del leader dell’opposizione. Per lungo tempo non prevista né dal punto di vista della prassi politica, né tantomeno da quello istituzionale, è stata inventata e impersonata in maniera obliqua e criptica da Obama durante il mandato di Trump, ed ora assume, proprio con Trump, forma più esplicita. Si profila così un problema di equilibrio del sistema politico americano, a maggior ragione con un presidente debole (Biden) ed un “leader dell’opposizione” ingombrante (Trump).
La riapparizione di Trump ha poi effetti anche sul piano internazionale: i fanatici del globalismo non possono pensare di tornare serenamente al business as usual. Trump non è stato ridotto, come speravano, ad una parentesi archiviata nell’ignominia. È vivo e vegeto, e può continuare ad essere un punto di riferimento anche al di fuori degli Stati Uniti per tutti quei movimenti che sono stati indicati, con etichetta demonizzante, come “sovranisti”. Soprattutto, le ragioni della sua sopravvivenza politica sono le stesse che lo hanno fatto vincere, a sorpresa, nel 2016. Gli squilibri della globalizzazione sono ancora lì, intatti. E non possono essere semplicemente ignorati.
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