Trump difende i nazisti. Trump
è amico dei suprematisti bianchi e del Ku Klux Klan. Trump è razzista. Trump,
con i suoi commenti dopo i fatti di Charlottesville, è venuto meno agli
standard morali minimi che devono essere rispettati dal Presidente degli Stati
Uniti. Anzi, è semplicemente pazzo.
Questo è il messaggio
bombardato, urbi et orbi, da “main
stream media” (= giornaloni seri), seguaci di Obama e Clinton, commentatori, conformisti
e pigro-pensanti vari.
Ma la realtà è ben diversa.
Per comprendere la vicenda,
occorre collocarla nel suo contesto. E per farlo, sono necessarie due premesse.
Prima premessa.
L’accusa a Trump di essere razzista/neonazista è una barzelletta. Trump non è
razzista, la sua storia personale, imprenditoriale e famigliare lo dimostra.
Certo, all’occorrenza tirano sempre in ballo quella vecchia causa per
discriminazione razziale che gli fecero per uno dei suoi condomini; sottacendo che
per quella vicenda non vi fu alcuna condanna, perché si chiuse con un accordo.
E quindi occorrerebbe ricordare, che so, che Trump è stato premiato nel 1999
dal Reverendo Jesse Jackson, per dirne una. Che suo genero, Jared Kushner,
marito della figlia prediletta Ivanka, è ebreo. Che la stessa Ivanka si è
convertita, per motivi di matrimonio alla religione ebraica. Che Trump è
totalmente pro Israele, oltre ad essere amicone del premier israeliano
Netanyahu. Le immagini della visita di Trump al Muro del Pianto hanno fatto il
giro del mondo. Obama, per intenderci, da Presidente si guardò bene
dall’andarci.
Seconda premessa. I
fatti realmente accaduti a Charlottesville possono essere così riassunti. La
città di Charlottesville vuole rimuovere la statua del Generale Lee, capo
dell’esercito sudista durante la guerra Civile/di Secessione. Argomento
complesso e delicato, tocca ferite che non sono mai state curate fino in fondo.
Viene organizzata una manifestazione di protesta, a cui aderiscono, ovviamente,
anche neo nazisti, suprematisti bianchi, Ku Klux Klan, altri gruppi di destra,
che fiutano l’occasione per farsi pubblicità. Le autorità negano il permesso.
L’American Civil Liberties Union (ACLU) fa causa. N.B.: l’ACLU è
un’organizzazione che ha la missione di difendere le libertà costituzionali, e
certamente non è sospettabile di essere favorevole a Trump. La causa l’ACLU la
fa perché ha a cuore il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti
(su cui torno più avanti in questo post).
Il tribunale federale autorizza la manifestazione. Militanti di sinistra organizzano
una contro-manifestazione di protesta. Senza permesso. La polizia sostanzialmente
sta a guardare, per ordine di un governatore e di un sindaco del Partito democratico,
entrambi molto ostili a Trump. Le due fazioni, inevitabilmente, vengono a
contatto, scoppiano degli scontri (violenti di destra contro violenti di
sinistra). In questo contesto temporale, un pazzo criminale si scaglia con
l’auto nel mezzo di una manifestazione, e una militante di sinistra, Heather
Heyer, perde la vita.
Fin qui Trump non c’entra
nulla. Entra in campo solo perché, in situazioni di crisi, tutti, negli
Stati Uniti, guardano al Presidente come guida. Lui fa una prima dichiarazione
nell’imminenza dei fatti, dicendo cose sostanzialmente di grande buon senso,
ovvero condannando gli atti violenti commessi da entrambe le parti.
Primo scandalo. Lo accusano di
aver fatto una dichiarazione “debole” e “troppo tollerante”. Democratici, main
stream media, conformismo politico e repubblicani “tradizionali” volevano la
solita condanna unilaterale standard di suprematisti bianchi, Ku Klux Klan e
neonazisti, che avrebbe messo d’accordo tutti e risolto nulla. Come avrebbe
fatto Obama. Che ad esempio, nel caso della morte di Michael Brown, ragazzo
afroamericano ucciso da poliziotto bianco, non esitò ad accusare subito il
poliziotto, salvo essere poi smentito dal proprio Dipartimento di Giustizia.
Trump, anche in questo come su
molte altre questioni, intende invece differenziarsi proprio da Obama, e
valutare i fatti prima di saltare alle conclusioni. Per questo ha, innanzitutto
(sabato) condannato tutti i violenti, di qualunque parte. Lunedì, ha condannato
esplicitamente Ku Klux Klan, suprematisti bianchi, neo nazisti. Martedì ha rinnovato
la condanna esplicita a Ku Klux Klan, suprematisti bianchi, neo nazisti, ma
anche quella nei confronti dei militanti violenti di sinistra.
Da qui il putiferio. L’accusa
a Trump è aver messo “sullo stesso piano” neo nazisti e antirazzisti.
Ma è così? No che non è così.
Ha anche risposto ad una
domanda esplicita al riguardo. Ecco il video. (Vi consiglio di guardarlo tutto, in particolare dal minuto 17:16). I
Insomma, la vicenda rispecchia
un cliché ormai consolidato: Trump dice una cosa, i media e i suoi oppositori
lo accusano di aver detto esattamente l’opposto.
Lo scontro è potente se si
considerano anche tutti gli altri fattori in gioco.
Primo fattore. Il
problema del razzismo e degli strascichi della segregazione razziale è molto grave,
negli Stati Uniti. Dal punto di vista legislativo federale è stato affrontato con
decisione solo poco più di cinquant’anni fa. Dal punto di vista pratico, reale,
le ferite sono aperte, le discriminazioni e le disuguaglianze esistono ancora,
eccome. Dal punto di vista politico, è un argomento delicato, perché fino a
circa sessant’anni fa i razzisti del Sud avevano la propria casa politica nel
partito democratico (sì, nell’attuale partito di Obama). Poi sono emigrati nel
partito Repubblicano (sì, nel partito di Lincoln, il presidente che abolì la
schiavitù). Insomma, entrambi i partiti hanno, al riguardo, i loro scheletri
nell’armadio.
Secondo fattore. Il
dibattito politico, negli Stati Uniti, su questo argomento, come su molti
altri, è fortemente ideologizzato. La tendenza è quella di imporre un
ragionamento per categorie prefissate. Una di queste è che le minoranze
(afroamericani, ispanici, etc.) votano tendenzialmente per il partito democratico,
i bianchi per il partito repubblicano. Chiunque cerchi di uscire da questo
schema, o di scardinarlo, ad esempio ragionando in termini di diritti
individuali, a prescindere dalla categoria di appartenenza, e di rilancio dell’economia
interna per risolvere i problemi delle comunità più deboli e povere (come fa
Trump) viene istintivamente avversato, perché pone in discussione i cardini del
sistema politico vigente.
Terzo fattore. Negli
Stati Uniti il Primo Emendamento della Costituzione federale tutela in modo
molto ampio la libertà di manifestazione del pensiero. La tutela del free speech è molto ampia, molto di più
di quella in vigore, per intenderci, in Italia, dove non sarebbero ammesse
manifestazioni di neo nazisti, Ku Klux Klan o suprematisti bianchi come quelle
che vediamo, invece, autorizzate negli Stati Uniti. La manifestazione di
Charlottesville era stata autorizzata, come detto, da un giudice federale. La radicale
differenza, su questo argomento, tra Stati Uniti e Italia (ed Europa più in
generale) ha evidenti radici storiche. L’Italia e l’Europa sono cadute, ad un
certo punto, nel baratro della dittatura. Gli Stati Uniti ne sono rimasti immuni,
e hanno potuto continuare a credere nel principio del “free market of ideas”, della
libera competizione delle idee. Ovvero nel convincimento che le idee orribili
vengono sconfitte non sopprimendole, ma mettendole in competizione con le altre
idee. Il Primo Emendamento, e le sue ricadute giuridiche, tracciano il
perimetro di scontro di questi giorni tra Trump e i suoi oppositori. Se non teniamo
conto questo aspetto, non capiamo quello che sta succedendo, e, più in
generale, gli Stati Uniti.
Quarto fattore. Negli
Stati Uniti c’è un grave problema di violenza politica. Con Obama, le tensioni
razziali sono state solo parzialmente sublimate nel dibattito – spesso duro, a
tratti violento – sulle accuse di brutalità e razzismo nei confronti della
polizia (Black Lives Matter v. Blue Lives Matter). Eletto Trump, ci sono stati
numerosi episodi di violenza politica da parte dei cosiddetti “Antifa”,
militanti “antifascisti”. Ci sono stati anche episodi individuali gravissimi,
come il tentato omicidio di un parlamentare repubblicano vicino a Trump, Steve Scalise. Del resto, anche durante
la presidenza Obama, una parlamentare democratica, Gabrielle Giffords, era stata ridotta in fin di
vita da un attentatore bianco. Insomma, il problema della violenza politica è grave,
assai delicato, deve essere affrontato con senso responsabilità da tutte le
parti.
Quinto fattore. In
questo contesto, il dibattito sul Primo Emendamento è più acceso che mai. In
estrema sintesi, la sinistra vuole arrogarsi il diritto a sopprimere la libertà
di manifestazione del pensiero dei soggetti ritenuti “indegni” ad esprimere le
proprie idee, quali neonazisti, Ku Klux Klan, suprematisti bianchi, etc. In
sostanza, la sinistra vuole arrogarsi il diritto di esercitare, a proprio
arbitrio, una specie di “heckler’s veto”, nozione con cui si definisce la
possibilità di vietare il diritto alla manifestazione del pensiero, esercitato,
però, non dalla polizia per motivi di ordine pubblico (come vorrebbe la
definizione tecnica di questo concetto), bensì da parte di organizzazioni politiche
che intendono arrogarsi il ruolo di “vigilanza democratica e antirazzista”. In pratica,
la sinistra vuole rendere gli Stati Uniti molto più simili all’Europa, anche per
motivi di calcolo politico (competere nel “free market of ideas”, è più
difficile; è più facile farlo in un contesto meno pluralista e più conformista).
E, purtroppo, il passo fino alla sostanziale giustificazione della violenza
politica, quando viene esercitata “a tutela” delle minoranze ritenute degne di
protezione, è molto, troppo breve.
Qui entra in gioco Trump.
Che in questo dibattito irrompe come un soggetto alieno, come qualcosa di
totalmente estraneo e diverso. Secondo Trump, il ruolo del Presidente,
innanzitutto, non è quello di distribuire giudizi morali o scomuniche (come
fece, ad esempio, precipitosamente Obama nel caso di Michael Brown, provocando divisioni
e risentimenti), ma, soprattutto, quello di garantire la legge e l’ordine, e
tutelare la Costituzione. Con tutti i suoi Emendamenti. Compreso il Primo.
Quello che, come abbiamo detto, garantisce la libertà di manifestazione del
pensiero anche da parte di soggetti che hanno idee orribili. Nella convinzione
che le idee orribili, come detto, si combattono non sopprimendole, ma
mettendole in competizione con le altre idee. Convinzione, questa, non solo di
Trump, ma di coloro che scrissero e approvarono il bill of rights federale. E ci sarà un motivo se il Primo
Emendamento è, appunto, il primo.
Trump non è un ideologo, ma un
pragmatico. Non è un razzista. Fino a quando non si è candidato contro la
Clinton i democratici erano suoi amiconi e apprezzavano i suoi assegnoni. Semplicemente,
Trump non crede che la sinistra abbia il diritto di decidere quali idee possono
essere manifestate, e quali no. Non crede che la sinistra abbia il diritto di esercitare
una specie di “heckler’s veto” non consentito dalla Costituzione federale degli
Stati Uniti. Soprattutto, Trump non crede che la sinistra abbia diritto ad un
lasciapassare morale che le consenta, oltre all’esercizio della dittatura del
politicamente corretto, anche l’utilizzo della violenza politica.
Forse è proprio per questo che
le reazioni nei confronti delle sue parole sono così virulente. Non solo da parte
di coloro che, oltre Atlantico, sono quotidianamente al lavoro per demolire
quell’esperimento pressoché unico nella storia dell’uomo rappresentato – dal
punto di vista istituzionale – dagli Stati Uniti. Ma anche da parte di coloro
che, su questa sponda dell’Oceano, quell’esperimento non hanno mai voluto capirlo
o che, per superficialità o per dolo, si prestano a travisarlo.
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