mercoledì 7 settembre 2022

Aborto e armi, due sentenze che scuotono l’ordine (e la tracotanza) liberal

Due vittorie personali di Trump, reazioni isteriche dei progressisti. Non abolito il “diritto” ad abortire, la materia restituita agli Stati e al consenso democratico.

(Pubblicato su Atlantico Quotidiano il 25 giugno 2022)

La Corte Suprema non ha dichiarato incostituzionale l’aborto, ma correggendo un suo storico errore ha restituito il tema al popolo: non essendo un diritto costituzionale, spetta ai singoli Stati regolare la materia.

Un famoso aneddoto racconta che nell’estate del 1787, a margine dei lavori della convenzione costituzionale di Filadelfia, Elizabeth Willing Powel – un’autorevole esponente della società dell’epoca, anche se esclusa, come tutte le donne, dai lavori costituenti – si rivolse a Benjamin Franklin per sapere quale forma costituzionale fosse stata scelta: “Dottore, che cosa avremo allora? Una repubblica o una monarchia?”. Franklin rispose fulmineo: “Una repubblica, se sarete in grado di mantenerla”.

Una nuova prova per le istituzioni Usa

Nella storia degli Stati Uniti, si sono presentati molti momenti di crisi che hanno reso questa citazione di Franklin emblematica. Senza andare troppo indietro nel tempo – e senza dimenticare la sanguinosa Guerra Civile combattuta dal 1861 al 1865 tra Stati del Nord e Stati del Sud – ma limitandoci all’attuale frangente storico, un momento di crisi è stato sicuramente il 6 gennaio 2021, quando un’orda di scalmanati sostenitori di Donald Trump è entrata nel Campidoglio per protestare contro l’esito delle elezioni presidenziali.

Le istituzioni Usa hanno superato anche quel complicato passaggio, ma in queste ore si trovano di fronte a una nuova prova.

Se c’è un argomento che separa gli Stati Uniti così tanto dall’Europa, al punto da renderli quasi incomprensibili se li si osserva da questa sponda dell’Atlantico, è il tema del possesso e del porto d’armi. E se c’è un argomento che lacera, al suo interno e a più livelli, la politica americana, è quello dell’aborto.

Su entrambi i temi, nel giro di poche ore, è intervenuta la Corte Suprema degli Stati Uniti, con due sentenze che hanno fatto schizzare il livello del dibattito oltre i livelli di guardia.

Prima sentenza: il diritto di portare armi

Era passato meno di un mese dal tremendo massacro della scuola elementare di Uvalde, Texas, e al Senato era in dirittura d’arrivo una legge volta ad introdurre alcune restrizioni in materia di acquisto delle armi. Si tratta, in effetti, di restrizioni timide, ma su di esse il presidente Biden contava per registrare, finalmente, una “vittoria” politica di cui aveva sempre più disperatamente bisogno.

Tale piccolo passo in avanti in materia di controllo delle armi è stato, però, oscurato da una sentenza dell’altro ieri della Corte Suprema, che a maggioranza (i sei giudici “conservatori” hanno votato a favore, i tre giudici “progressisti” hanno votato contro), ha dichiarato incostituzionale una legge dello Stato di New York, in vigore da più di un secolo, che consentiva il porto d’armi in pubblico solo in presenza di un giustificato motivo (“proper clause”).

Nel fare ciò, la Corte Suprema, per la prima volta, ha affermato che il Secondo Emendamento della Costituzione Federale – o meglio, l’interpretazione di tale norma che nel tempo si è consolidata al di là del suo stretto tenore letterale – tutela non solo il diritto di possedere armi, ma anche quello di portarle nei luoghi pubblici per difesa personale.

Secondo la Corte, il governo può ovviamente limitare il porto d’armi in luoghi “sensibili” (es., scuole ed edifici governativi), ma la nozione di luogo “sensibile” non può essere estesa, genericamente, a tutti i luoghi pubblici.

I giudici di orientamento liberal hanno manifestato il loro fermo dissenso. Basti citare l’incipit dell’opinione dissenziente del giudice Breyer (progressista), che ricorda che nel 2020, 45.222 americani sono stati uccisi da armi da fuoco. Dall’inizio del 2022, si sono registrate 277 stragi con armi da fuoco, in media più di una al giorno. Ma secondo il giudice Breyer, il problema del porto d’armi dovrebbe essere risolto dal legislatore, non dai giudici.

In base alle prime analisi, la sentenza può avere effetto in almeno altri sei Stati, dove sono in vigore leggi analoghe a quella dello Stato di New York, che è stata dichiarata incostituzionale. Soprattutto, la sentenza della Corte Suprema – che segue una tabella di marcia ben diversa da quella del Congresso – probabilmente scritta già prima della strage di Uvalde, ha fatto passare in secondo piano la timida legge approvata nelle stesse ore al Senato.

La reazione isterica dei progressisti

Le reazioni delle istituzioni sono state immediate, e degne di nota. Il governatore dello Stato di New York e il sindaco della città di New York – entrambi Democratici – hanno detto che utilizzeranno ogni mezzo giuridico (quale?) per opporsi agli effetti della sentenza.

Ma a spingersi oltre ogni limite di ragionevolezza sono stati alcuni commentatori di orientamento progressista, con proposte che, ove attuate, minerebbero alle fondamenta la stabilità della federazione.

L’opinionista Keith Olbermann ha addirittura proposto di considerare “nulla” la sentenza della Corte Suprema. Cioè di ignorarla. Non c’è che dire, si tratta di un bel passo avanti rispetto ai tempi in cui i progressisti, durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2020, si “limitavano” a proporre di modificare le regole del gioco in materia di composizione della Corte, per consentire a Biden, in caso di elezione, di integrarla con un congruo numero di giudici in modo da assicurare una maggioranza progressista.

Ma si tratta anche di un bel cortocircuito, se si considera che non è la prima volta che la teoria della “nullificazione” si presenta nella storia americana. Fu propugnata, nel corso dell’Ottocento, dagli Stati del Sud, ed ha creato il retroterra giuridico che ha condotto alla Guerra Civile.

L’isteria dei commentatori progressisti non ha però fatto a tempo ad esplodere appieno, perché, il giorno dopo, la Corte Suprema ha annunciato la propria decisione – tanto clamorosa quanto attesa – in materia di aborto.

Seconda sentenza: l’aborto

I media italiani hanno dimostrato, ancora una volta, tutti i loro limiti nel fare informazione su ciò che riguarda l’ordinamento statunitense. La Corte Suprema non ha “abolito” il diritto di abortire; ha detto, molto semplicemente, che spetta ai singoli Stati regolare la materia.

In sintesi, la Corte riconosce che l’aborto rappresenta un profondo dilemma morale. Ma la Costituzione non vieta ai cittadini dei singoli Stati di regolare o proibire l’aborto. Le sentenze Roe e Casey, con cui, in precedenza, la Corte si era dichiarata titolare dell’autorità di regolare la materia, sono andate oltre quanto stabilito dalla Costituzione. La Corte Suprema ha deciso di annullare tali precedenti, e di restituire tale autorità ai legislatori dei singoli Stati.

Viene così eliminato un orientamento giurisprudenziale ritenuto dai suoi critici una evidente forzatura – e pertanto fragile – in quanto la Costituzione federale non dice nulla sull’aborto, né sul diritto di privacy che ne costituirebbe il fondamento.

L’effetto della sentenza è che la materia dell’aborto verrà regolata in maniera differenziata nei 50 Stati dell’Unione. Rimarrà, ad esempio, in vigore la legge del Mississippi – che è stata il casus belli – che consente l’aborto fino alla quindicesima settimana, e che è pertanto più permissiva della legge italiana (che lo consente nei primi novanta giorni di gestazione, poco meno di tredici settimane).

Il variegato panorama legislativo che si viene così a creare spiega perché l’aborto è, negli Stati Uniti, argomento così polarizzante: perché non attiene solo ai diritti individuali, ma anche ai rapporti di potere tra Stato federale e Stati membri.

Intimidazioni e minacce

La Corte Suprema non si è lasciata intimorire dalle pressioni istituzionali a cui è stata sottoposta dopo che, nelle scorse settimane, una “manina” aveva rivelato al mondo una bozza della sentenza, con una clamorosa fuga di notizie. I giudici conservatori non si sono fatti intimidire dalle inaudite proteste davanti alle loro abitazioni, inscenate dagli attivisti abortisti, o dalle minacce di morte (all’inizio di giugno un ventiseienne californiano è stato arrestato, armato, nei pressi dell’abitazione del giudice Kavanaugh).

Bannare Trump non è bastato

Le reazioni dei Democratici alla sentenza “shock” sono state immediate. La beniamina dell’estrema sinistra, Alexandria Ocasio-Cortez ha incitato alla protesta nelle strade contro la decisione della Corte Suprema, definendola – sic et simpliciter – “illegittima”. Reazioni estreme, per ora solo a parole, che tradiscono la disperazione che sta montando nel campo progressista.

I Democratici pensavano che avrebbero risolto tutti i loro problemi togliendo di mezzo Trump. Pensavano che, per archiviarlo, sarebbe stato sufficiente sfrattarlo dalla Casa Bianca con le elezioni, bandirlo dai social media con la collaborazione di Big Tech, e metterlo sotto scacco giudiziario con la faziosa commissione d’inchiesta sull’”assalto” al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Confidavano che ciò sarebbe bastato a ridurlo ad incidente di percorso della storia, a parentesi eccentrica e sgradita nella parabola politica degli Stati Uniti, destinata al dimenticatoio.

La realtà è ben diversa. L’eredità di Trump è viva e si presenta sotto forma di due sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, che sono intervenute senza sconti su due nervi scoperti della politica e della società americana: il controllo delle armi e l’aborto.

I giudici di Trump

Trump lo aveva promesso sin dalla campagna elettorale del 2016: se fosse stato eletto, e si fosse presentata l’occasione, avrebbe nominato, come giudici per la Corte Suprema, conservatori “a tutto tondo”. Ha mantenuto la promessa, nominando tre giudici che, seppur con diverse sfumature e gradazioni, corrispondono al profilo: Gorsuch, Kavanaugh, Coney Barrett.

Ne risulta che la Corte è, almeno sulla carta, a salda maggioranza conservatrice (6 contro 3), e salvo sorprese, considerando che si tratta di nomine a vita, resterà così per anni. E non è aspetto limitato alla suprema magistratura federale. Trump, durante la sua presidenza, ha sfruttato in maniera efficace tutte le occasioni che ha avuto per nominare giudici federali conservatori, i quali pure, anche nei gradi inferiori, restano in carica a vita.

Il messaggio politico

Sfrattato dalla Casa Bianca; bandito dai social media, al punto da doverne creare uno proprio; bersagliato dalle inchieste giudiziarie, tuttavia Trump ha continuato a plasmare il Partito Repubblicano a propria immagine e somiglianza dal suo buen retiro in Florida. L’ex presidente può intestarsi le due sentenze della Corte Suprema come personali vittorie politiche, nella misura in cui sono state determinate da tre giudici da lui nominati.

Il messaggio è efficace perché semplice: quando si vota per un presidente che sia un repubblicano “vero” (come Trump), si vince. Ne risulta rafforzato l’invito, rivolto agli elettori conservatori, a votare, alle elezioni di medio termine di novembre, per candidati che siano, anch’essi, Repubblicani “veri” – ovvero sostenitori di Trump, e da quest’ultimo appoggiati – e non RINOs (“Republicans in name only”, Repubblicani solo di nome) ovvero esponenti della residua frangia, piuttosto malmessa, di suoi oppositori interni.

La frustrazione dei Democratici

A fronte di ciò, i Democratici devono fare i conti, invece, con il tasso di gradimento del presidente Biden a livello rasoterra, per mille motivi che vanno dalla politica estera all’economia, al punto che alcuni alleati già tentano di ridurlo, anzitempo, ad ”anatra zoppa” (David Axelrod, autorevole consigliere di Obama, ha dichiarato che Biden sarà troppo vecchio per candidarsi per un secondo mandato).

Stando ai sondaggi – ovviamente da prendere con le molle – alle elezioni di medio termine vi è il rischio che i Repubblicani prendano il controllo del Congresso, o almeno del Senato, e questo rappresenterebbe la fine per l’agenda dell’amministrazione Biden.

Soprattutto, ne emerge una sensazione di impotenza: i Democratici sapevano che stava arrivando la sentenza sull’aborto, ma, pur avendo il presidente e il controllo del Congresso (anche se risicato al Senato) non sono riusciti a fare nulla di concreto, a parte urlare.

Da questa sensazione di debolezza, traggono forza le frange progressiste più estreme, rappresentate da coloro che vogliono portare lo scontro nelle strade, fuori dalle istituzioni e, anzi, contro di esse.

Si prospetta, quindi, un’estate torrida dal punto di vista politico, ed è in questo contesto che risuona, con rinnovata attualità, il monito di Benjamin Franklin ai cittadini americani. A cui i Padri Fondatori hanno consegnato una repubblica, ma anche il complicato compito di mantenerla.

sabato 7 maggio 2022

Roe v. Wade: una “talpa” per intimidire la Corte Suprema, in puro stile Dem

Questa settimana la politica Usa è stata terremotata dalla fuga di notizie sulla sentenza che la Corte Suprema sarebbe in procinto di pronunciare sull'aborto. Di seguito, l'articolo che ho scritto su Atlantico Quotidiano.


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La politica Usa è scossa dallo scoop della testata Politico, che ha ricevuto e pubblicato la prima bozza della sentenza con cui la Corte Suprema avrebbe deciso – il condizionale, come si vedrà, è d’obbligo – di ribaltare la famosa sentenza Roe c. Wade del 1973, che riconobbe il diritto costituzionale della donna all’aborto. Un passo che era nell’aria, ma che è comunque clamoroso per la sua portata storica, perché si tratterebbe di abbandonare un orientamento giurisprudenziale – e, con esso, uno specifico regime di tutela dei diritti delle donne – che sta per compiere cinquant’anni.

Per comprendere le dirompenti ripercussioni politiche del problema, è indispensabile ricostruire il contesto in cui si inserisce questa stupefacente fuga di notizie. Secondo quanto è dato comprendere leggendo la bozza di sentenza, la Corte intende compiere questo passo nel caso Dobbs c. Jackson Women’s Health Organization, in cui si discute sulla costituzionalità di una legge dello Stato del Mississippi del 2018 che ha anticipato al compimento della quindicesima settimana di gravidanza il divieto di aborto, salvi i casi di emergenza medica o di gravi malformazioni del feto. La legittimità costituzionale di questa legge statale è contestata perché l’attuale orientamento della Corte Suprema federale consente, invece, di limitare l’aborto solo dopo la ventitreesima-ventiquattresima settimana di gravidanza, quando, cioè, la maggioranza degli esperti considera che il feto potrebbe sopravvivere autonomamente.

La bozza divulgata da Politico è scritta come un’opinione di maggioranza, e ciò significa che almeno cinque giudici della Corte (in totale sono nove) dopo la discussione orale della causa Dobbs, svoltasi lo scorso 1 dicembre, hanno votato per ribaltare la sentenza Roe c. Wade e la successiva sentenza Planned Parenthood c. Casey, che l’aveva confermata negli aspetti sostanziali. Nella bozza della sentenza Dobbs, redatta dal giudice Alito, si legge che Roe c. Wade è una sentenza “palesemente sbagliata fin dall’inizio” e “profondamente dannosa”, perché la Costituzione federale non menziona esplicitamente l’aborto (il che, testualmente, è vero), né tutela tale diritto implicitamente (argomento che, invece, è oggetto di acceso dibattito da quasi cinquant’anni). Secondo successive rivelazioni della Cnn, i cinque giudici che sarebbero d’accordo con il “ribaltone” giurisprudenziale sono tutti “conservatori”, tutti nominati, cioè, da presidenti del Partito Repubblicano: oltre allo stesso Alito (nominato da Bush jr.), si tratterebbe di Clarence Thomas (nominato da Bush sr.), e dei tre giudici nominati da Trump, ovvero Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett. Il Chief Justice Roberts, che pure è classificato come “conservatore” in quanto anch’egli nominato da Bush jr., sarebbe, secondo indiscrezioni, orientato per un’opinione parzialmente dissenziente (che con terminologia profana potremmo definire “cerchiobottista”), ovvero sarebbe d’accordo nel ritenere la legge del Mississippi costituzionalmente legittima, ma sarebbe contrario al completo accantonamento del precedente Roe c. Wade.

Le fughe di notizie dalla Corte Suprema Usa sono rare, visto che le regole a salvaguardia della riservatezza del lavoro dei giudici sono estremamente rigide; e, quando avvengono, sono quasi sempre clamorose, poiché si tratta dell’organo giudiziario che tratta i casi più importanti dell’intera federazione. Vi furono indiscrezioni, ad esempio, anche in occasione del caso Roe c. Wade, proprio il famoso precedente in materia di aborto che ora la Corte avrebbe deciso di ribaltare. Lo stesso Chief Justice Roberts ha chiarito, con un comunicato ufficiale, che la bozza oggetto della fuga di notizie è autentica, ma che non si tratta della decisione definitiva, ed ha ordinato un’indagine, assicurando che l’episodio non minerà l’integrità dell’attività della Corte.

In questo caso, lo scoop di Politico è clamoroso non solo perché riguarda l’aborto, argomento estremamente sensibile e polarizzante negli Stati Uniti (e altrove), ma perché avviene in quello che potrebbe essere il momento decisivo, e quindi più delicato, del processo decisionale della Corte. Le bozze delle decisioni e perfino i voti dei giudici a volte cambiano nel periodo che intercorre tra il voto iniziale, che, come detto, i giudici effettuano dopo aver ascoltato la discussione orale, e la pubblicazione della sentenza definitiva, che in questo caso era prevista a cavallo tra fine giugno ed inizio luglio, prima della pausa estiva.

Le interpretazioni possibili sono più d’una. La “talpa” potrebbe essere un giudice progressista o un suo assistente, che intende fare pressione sui cinque colleghi conservatori per convincere almeno uno a cambiare idea. Oppure potrebbe trattarsi di uno di questi cinque giudici, o di un suo assistente, che ha capito che qualcuno sta per “defilarsi” e intende impedirglielo. Comunque sia, nella Corte c’è un cosiddetto “whistleblower”, il cui scopo è sabotare la decisione, o, in ogni caso, infiammare il dibattito pubblico (che rischia di essere dirompente dal punto di vista istituzionale) per influenzarne l’esito.

Roe v. Wade è tra le decisioni più controverse nella storia della Corte Suprema. Come furono veementi le reazioni che la accolsero più di 49 anni fa, non possono essere che accese le reazioni alla decisione di “ripudiarla”, che ha comunque portata storica. E siamo solo all’inizio. Per di più, le gravi imprecisioni compiute dai media nostrani nel riportare la notizia non ci aiutano a comprendere i termini del dibattito.

Cerchiamo di fare chiarezza. Se la decisione sarà quella formulata con la bozza redatta dal giudice Alito, ciò non comporterà, di per sé, l’introduzione negli Stati Uniti del divieto di abortire. Tale decisione, infatti, avrà un risultato diverso, ovvero eliminerà il divieto, per gli Stati membri della federazione, di approvare leggi che limitino o vietino l’aborto in maniera difforme rispetto a quanto stabilito dalla Corte Suprema con la sentenza Roe c. Wade e, successivamente, Casey. In altre parole, spetterà al legislatore statale, o federale, democraticamente eletto, regolare la questione. Ed è facile prevedere che negli Stati governati dai Democratici l’aborto rimarrebbe ampiamente consentito, mentre verrebbe limitato o vietato in quelli a maggioranza repubblicana. Non si avrebbe più, così, una base di tutela uniforme in tutta la federazione.

Lo scoop di Politico è una scossa di terremoto nella campagna per le elezioni di medio termine del prossimo novembre. Se fino a ieri i principali argomenti del dibattito erano, per i Democratici, l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 come momento “squalificante” per Trump e per tutti coloro che lo sostengono, e, per i Repubblicani, il caro prezzi, da oggi il tema dell’aborto, estremamente controverso, irrompe sulla scena.

I Democratici hanno reagito immediatamente, dando l’impressione di avere i comunicati stampa già pronti nel cassetto, in perfetta coordinazione tra loro (erano stati avvertiti?). La Speaker della Camera Nancy Pelosi e il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer hanno attaccato i giudici conservatori della Corte Suprema con una dichiarazione durissima. Il senatore Bernie Sanders si è messo a capo dell’ala progressista e invocato l’approvazione urgente di una legge federale a tutela del diritto di abortire. Cosa facile a dirsi, ma molto difficile, se non impossibile, a farsi, perché al Senato i Democratici non hanno una vera maggioranza (l’assemblea è, di fatto, divisa esattamente a metà, 50 Repubblicani contro 48 Democratici e 2 Indipendenti, questi ultimi affiliati al gruppo democratico), e le attuali procedure richiedono addirittura 60 voti.

Il presidente Biden ha diffuso un comunicato con il quale, in sostanza, ha chiesto alla Corte di non ribaltare Roe c. Wade. Biden, però, oltre ad essere in crisi nei sondaggi, ha un problema di credibilità sull’argomento specifico. Nella sua lunga carriera politica ha fatto molte cose, e non tutte coerenti tra di loro. E sul tema dell’aborto ha giustificato i propri cambi di opinione con l’influenza del proprio background cattolico. All’inizio degli anni Ottanta ha dapprima votato a favore, e poi contro un emendamento costituzionale che avrebbe consentito ai singoli Stati membri di legiferare in materia anche oltre i limiti posti da Roe c. Wade. E poi nel 2003 ha votato, da senatore, a favore del Partial-Birth Abortion Ban Act, legge che vieta una specifica e molto controversa procedura abortiva. Oggi la sua nuova mossa è tentare, insieme ai suoi colleghi di partito, di cambiare una sentenza della Corte Suprema.

Se la fuga di notizie dalla Corte Suprema è clamorosa, altrettanto lo è l’attacco coordinato mosso dal potere legislativo e dal potere esecutivo federali nei confronti dell’indipendenza della Corte, ovverosia del più alto organo del potere giudiziario federale. Ci sono tutti i presupposti per una grave crisi istituzionale, che rischia di assumere connotati pericolosi, se i Democratici non resisteranno alla tentazione di incoraggiare le proteste di piazza. Una preoccupazione tutt’altro che peregrina, visto quanto avvenuto il 6 gennaio 2021, quando a scendere in piazza per protestare, in quel caso, contro l’esito delle elezioni presidenziali, sono stati i sostenitori di Trump, che si sono spinti fino ad invadere il Campidoglio, dimostrando come gli Stati Uniti siano un Paese non solo profondamente diviso, ma anche sull’orlo di una vera e propria crisi di nervi.

La sfida per i Democratici è decisiva. Sul tavolo della Corte Suprema non c’è solo il tema dell’aborto e del diritto di scelta delle donne, ma anche il pericolo di una grave sconfitta politica che aumenterebbe per loro il rischio, attualmente concreto, di perdere la maggioranza al Congresso alle elezioni di medio termine di novembre. I sondaggi – per quello che valgono – sono preoccupanti.

Il cambio di rotta della Corte Suprema in materia di aborto sarebbe a tutti gli effetti una vittoria “postuma” della presidenza di Donald Trump, che potrebbe galvanizzare i Repubblicani. La nomina di giudici conservatori “a tutto tondo”, pronti ad accantonare “automaticamente” la sentenza Roe c. Wade alla prima occasione utile, era stata una delle promesse elettorali di Trump, che ha potuto mantenerla ben tre volte, nominando Gorsuch (che rimpiazzò Scalia, leggenda dei conservatori), Kavanaugh (al posto del “moderato” Kennedy) e, soprattutto, Barrett al posto del giudice Ginsburg, quest’ultima simbolo progressista e paladina del diritto di scelta delle donne, che morì poche settimane prima delle elezioni del 2020. Riuscendo a nominare questi tre giudici relativamente giovani (si tratta di incarichi a vita), e, in particolare, con la nomina di Barrett al posto di Ginsburg, Trump è riuscito, nonostante la veemente opposizione democratica, ad assicurare nella Corte Suprema una duratura maggioranza conservatrice di 6 a 3. Ciò, almeno, sulla carta, vista la descritta propensione – che tende ad essere un’abitudine nei frangenti decisivi – del Chief Justice Roberts a votare coi giudici “progressisti” (proprio un ripensamento all’ultimo di Roberts avrebbe salvato la riforma sanitaria di Obama nel 2012).

Il nuovo equilibrio creato nel supremo organo giudiziario federale non ha dato a Trump tutti i risultati che si attendeva. La Corte Suprema si è ostinatamente rifiutata di dare corda ai ricorsi che il presidente uscente e i suoi alleati hanno presentato per cercare di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali del 2020. La Corte, nel fare ciò, ha rafforzato il proprio ruolo di arbitro terzo, imparziale e indipendente. Si tratta ora di capire se il “capitale politico” (in senso istituzionale) accumulato in quell’occasione basterà alla Corte per non soccombere alle pressioni che gli altri poteri dello Stato federale hanno deciso ora di esercitare nei suoi confronti, sfruttando il varco aperto da “gole profonde”, e – le prossime settimane ci diranno se andrà così –  cavalcando le proteste organizzate dai professionisti dell’attivismo politico.

Trump prepara la riscossa: niente terzo partito, capo dell’opposizione a Biden e conquista del Gop

Non ho mai riportato qui il mio articolo del 2 marzo 2021 pubblicato su Atlantico Quotidiano. Rimedio, anche perchè mi sembra ancora piuttosto attuale...


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Dopo poco più di un mese lontano dai riflettori e dai social media, da cui è stato bandito, e dopo essere stato assolto nel secondo giudizio di impeachment, Donald Trump torna al centro della scena politica, statunitense e non solo.

Il palcoscenico è stato quello “amico” della Conservative Political Action Conference (CPAC), l’annuale conferenza del movimento conservatore americano, che, semplificando, può essere definita come il raduno dell’ala destra del Partito Repubblicano.

Trump ha prevalso nello straw poll, il “sondaggio di paglia” che viene tradizionalmente svolto tra i partecipanti al termine della conferenza, e che, a conti fatti, gli ha assegnato il titolo “virtuale” di candidato di punta del partito per le presidenziali del 2024. È vero, il significato di questo sondaggio è relativo, proprio perché viene condotto solo tra gli appartenenti ad una “corrente” del partito. Tanto per dirne una, nel 2016 lo vinse Ted Cruz, che fu di lì a poco demolito proprio da Trump durante le primarie.

Bisogna però considerare che nel 2016 Trump era ancora un corpo estraneo al partito, e la sua vittoria alle primarie fu un’autentica sorpresa, seconda solo alla sua vittoria alle presidenziali vere e proprie. Ma lo straw poll del CPAC ci dice almeno tre cose su Trump, tutte importanti: non è diventato un “impresentabile”, come volevano ridurlo i Democratici con il secondo impeachment; non è più un corpo estraneo al Partito Repubblicano, come speravano che continuasse ad essere i repubblicani più “moderati” (quelli che i partecipanti al CPAC definiscono Rinos, ovvero “Republicans In Name Only”, Repubblicani solo nel nome); ed il Gop, dal punto di vista elettorale, non può prescindere da lui.

Dopo lo straw poll, Trump ha pronunciato il suo primo discorso pubblico dall’uscita dalla Casa Bianca. Lo stile è stato quello di sempre, ma si è trattato, nel complesso, di un intervento più strutturato del solito dal punto di vista politico. Per fare una sintesi dei passaggi più importanti, ha attaccato su tutta la linea il primo mese dell’amministrazione Biden, che ovviamente ha definito disastroso, dalla Cina allo sport femminile minacciato dagli atleti trans; ha rispolverato le accuse sui brogli elettorali, denunciando l’”ignavia” della Corte Suprema, che si è rifiutata di affrontare la questione per motivi procedurali; si è “intestato” la battaglia per una riforma delle regole elettorali che limiti allo stretto indispensabile il voto anticipato o per posta, e che imponga in tutti gli Stati ad ogni elettore di presentare una forma di identificazione ufficiale – tema osteggiato dal Partito Democratico, che lo ritiene discriminatorio nei confronti delle minoranze, ma battaglia ormai storica del Partito Repubblicano che, quindi, può essere per Trump un’arma di leadership unificante; ha denunciato la censura subita dai social media, sollecitando norme statali a tutela della libertà di espressione, in mancanza di interventi del potere federale; ha fatto la lista dei “traditori” presenti tra i Repubblicani eletti al Congresso, promettendo che li farà sfidare, alle primarie, da propri fedelissimi, senza timore di scatenare lotte interne al partito.

Soprattutto, ha ribadito l’idea – vincente nel 2016 – di rendere il Gop il punto di riferimento dei “colletti blu” e di tutte le classi lavoratrici e imprenditoriali “tradite” dalla politica economica dei Democratici e dalla globalizzazione. Smentendo alcune voci circolate nelle ultime settimane, ha chiarito di non voler fondare un nuovo partito. La sua strategia è un’altra: rendere il proprio movimento egemone nel Partito Repubblicano, per poi puntare di nuovo, nel 2024, alla Casa Bianca, personalmente o tramite un proprio “surrogato”. Questa strategia dovrà affrontare un test decisivo già l’anno prossimo, alle elezioni di medio termine. E – occorre dirlo – i precedenti non sono a favore di un secondo mandato presidenziale di Trump. Nella storia, infatti, solo un presidente ha vinto due mandati non consecutivi, Grover Cleveland, ma stiamo parlando di cosa accaduta più di 150 anni fa, e mai più avvenuta.

Ma al di là delle ambizioni personali di Trump, contano soprattutto le ricadute politiche ed istituzionali delle sue mosse. Con il plateale ritorno in campo dell’ex inquilino della Casa Bianca, anche gli Stati Uniti hanno ora la figura del leader dell’opposizione. Per lungo tempo non prevista né dal punto di vista della prassi politica, né tantomeno da quello istituzionale, è stata inventata e impersonata in maniera obliqua e criptica da Obama durante il mandato di Trump, ed ora assume, proprio con Trump, forma più esplicita. Si profila così un problema di equilibrio del sistema politico americano, a maggior ragione con un presidente debole (Biden) ed un “leader dell’opposizione” ingombrante (Trump).

La riapparizione di Trump ha poi effetti anche sul piano internazionale: i fanatici del globalismo non possono pensare di tornare serenamente al business as usual. Trump non è stato ridotto, come speravano, ad una parentesi archiviata nell’ignominia. È vivo e vegeto, e può continuare ad essere un punto di riferimento anche al di fuori degli Stati Uniti per tutti quei movimenti che sono stati indicati, con etichetta demonizzante, come “sovranisti”. Soprattutto, le ragioni della sua sopravvivenza politica sono le stesse che lo hanno fatto vincere, a sorpresa, nel 2016. Gli squilibri della globalizzazione sono ancora lì, intatti. E non possono essere semplicemente ignorati.

Letture - L'errore di calcolo di Bin Laden

L'articolo " Bin Laden’s Catastrophic Success " di Nelly Lahoud, pubblicato su Foreign Affairs nel settembre/ottobre 2021 , c...